Nel 2021, molto prima che Performatorio aprisse le sue porte al pubblico, Eleonora Quadri cominciò a interessarsi alla sua storia all’interno del contesto cittadino. Così nacque “Zero”, il primo progetto dentro l’ex lavatoio di via Nazario Sauro. Un intervento effimero: una carta da parati che riprendendo il pattern del reticolo dei corsi d’acqua sotterranei di Bergamo, ricopriva la parete dell’edificio che sarebbe stata abbattuta con l’inizio dei lavori di ristrutturazione, oltre a una serie di proiezioni verso l’esterno, visibili ai passanti e al vicinato nelle ore serali.
Quello che resta oggi di “Zero” è la sua documentazione e questa conversazione con Eleonora; ciò che ci riporta con forza a quel 2021 è il fatto che “Zero” non era la fine, ma solo l’inizio.
[Che rapporto hai con la città? Come la vivi?]
Ho cambiato spesso città, mi sono trasferita all’Università, poi ho fatto un anno di Erasmus e uno di tesi in due città diverse, ho studiato fotografia in un’altra ancora e mi è capitato di fermarmi in altre tre per oltre un mese. Forse anche per questo non sento di appartenere a una città in particolare. Amo esplorare le città, passeggiare
Considero Bergamo “la mia città” perché è qui che sono cresciuta, dove ha vissuto la mia famiglia, e forse, paradossalmente, è proprio quella a cui ho dedicato meno esplorazione. Negli anni ho imparato a trasferirmi e ad ambientarmi in contesti diversi ma anche a studiare la storia delle città, a visitarle, a creare delle abitudini, dei luoghi ricorrenti - cosa che a Bergamo non ho fatto o ho fatto solo in parte…
Quando mi trovo in una città nuova mi piace studiarne la storia, capire come si è costruita, leggere nello spazio urbano la trasposizione del suo sistema sociale – un aspetto molto evidente nelle città europee. È un’entità - la città - un organismo con delle costanti che si ripetono – in Europa in maniera molto simile e coerente.
[Quale sensazione hai provato entrando per la prima volta al Performatorio? Che effetto ti ha fatto?]
Uso una parola “strana”: mi ha fatto “tenerezza”. Mi è sembrato qualcosa messo lì, a caso… Mi sono domandata: “Perché hanno costruito un edificio così piccolo e così particolare proprio qui, in mezzo a tutti questi palazzi?” Lo vedi, è un po’ estraneo… L’ho trovato molto curioso, molto interessante.
[Cosa ti ha incuriosita?]
Intanto mi ha colpita il blu del suo pavimento, così come la greca gialla disegnata attorno alle pareti, e la parte della vetrina con tutti quegli strati di carte e muri uno sopra l’altro, mi ha dato l’idea di un luogo che è stato tante cose e ogni volta ha mantenuto delle tracce del suo passato, che ha avuto diverse funzioni e ora non capisci più cosa sia…
[Nel tuo progetto “Zero” da cosa sei partita? Qual è stata la tua urgenza o l’elemento che ti ha agganciata?]
Il canale, per due motivi in realtà: uno, perché una delle cose che Scande mi aveva detto – o forse glielo avevo chiesto io, non ricordo – era che in passato il Performatorio era stato un lavatoio. E poi c’è questa cosa dei canali nascosti nelle città che mi piace, la trovo interessante su Bergamo perché te ne dimentichi proprio... è un aspetto che ho riscontrato anche a Bologna, dove ho vissuto a lungo: anche qui ci sono molti canali che nel tempo sono stati nascosti. In via Riva di Reno, tutta la zona di via Indipendenza, la parte di viale Oberdan in cui vedi proprio il fiume - esattamente come a Bergamo.
Piano piano le città hanno coperto queste parti acquee che in realtà servivano, sia a livello industriale sia nella vita. Mi è piaciuto il fatto che lui - il Performatorio - fosse sopra il canale, mi ha attirata l’idea di questo posto così piccolo e così decontestualizzato ma posto esattamente sopra a questo elemento, l’acqua, sopra i canali di cui a Bergamo ci si dimentica e così, nemmeno te ne prendi cura [ti dimentichi che sotto di te, anche se no lo vedi, ci potrebbe essere qualcosa]. Forse Borgo Palazzo è la zona in cui il corso dei canali è rimasto più visibile: hanno costruito dove si potevano creare fondamenta, quindi l’acqua ha disegnato la città.
[Se la città fosse un organismo vivente, i canali cosa potrebbero essere?]
Le vene, una linfa [ho immaginato i reni].
Partendo dai canali, ho poi pensato alla loro mappa. Mi piaceva il fatto che il Performatorio si collegasse alla città attraverso l’acqua.
Inoltre, voi sareste intervenuti nello spazio, con la ristrutturazione… volevo qualcosa che entrasse in relazione anche con i lavori, così ho pensato che tutto ciò che era rimasto di questo luogo, della sua storia, era attaccato alle sue pareti: lavorare su questo aspetto mi è sembrato quanto di più aderente potessi fare, senza ricorrere a un intervento che andasse a trasformare o interpretare il luogo. Qualcosa che da un lato richiamasse quello che già c’era e che allo stesso tempo potesse avere una sembianza non definiva, come la carta da parati, che si attacca a un elemento già presente nello spazio - le pareti. Mi piaceva inoltre l’idea che questo intervento andasse a evidenziare proprio quegli elementi che con la ristrutturazione sarebbero scomparsi, non so perché… Mi attirava l’idea di compiere un gesto così invasivo, come incollare della tappezzeria, e pensare che poi sarebbe stato distrutto [mi interessa la curiosità di Eleonora, il suo incuriosirsi, andare oltre la tenerezza. Curiosità intesa nella sua accezione etimologica, dal latino cura, intesa come premura. Il curioso altro non è che chi si prende cura di qualcosa e così facendo, la trasforma].
[Che effetto ti fa pensare a questa cosa? Immaginare che quello che hai fatto andrà distrutto?]
Mi rimanda a qualcosa di inutile, che già sai che andrà perso ma allo stesso tempo è qualcosa che dà valore, che esiste solo in quel tempo che hai deciso di rendere prezioso. È un po’ come se sottolineasse quelle parti architettoniche che poi andranno distrutte, come a dire “ora ci sono e ad un certo punto non ci saranno più”. Ecco, forse più che inutile è qualcosa che ha a che fare con l’accettare…
Mi piaceva anche l’idea di fare qualcosa per chi quello spazio l’avrebbe letteralmente trasformato - gli operai - e quindi non lo avrebbe neanche vissuto come uno spazio espositivo. Se fai un intervento che resta e viene visto diventa anche un’esposizione, invece, in questo caso è qualcosa che fai per il luogo e basta. Però, sicuramente, vai a disegnare lo spazio, a unificarlo, e poi non so, c’entra anche con il non essere troppo indifferenti: c’è questo spazio così liminare, quello delle pareti, uno spessore che se ne andrà e io intervengo proprio lì, dove verrà distrutto [e a proposito di acqua, in fisica lo “strato liminare” è lo strato fluido aderente alla superficie di un corpo].
[Cosa intendi quando dici “non essere troppo indifferenti”?]
È una cosa minuscola in realtà: porre attenzione a qualcosa che potrebbe tranquillamente passare inosservata [non mi sembra una cosa “minuscola”]. Infondo, si può dare importanza a ogni cosa, ma una volta che lo fai non torni più indietro.
C’è anche un’altra cosa che mi sta venendo in mente adesso, un’idea che mi piace molto: scattare una serie di fotografie a questo progetto prima che comincino i lavori. Con questa sembianza “Zero” non esisterà più e le immagini saranno l’unica sopravvivenza di questo momento.
[Se “Zero” fosse un messaggio, se chiedesse qualcosa alle persone che lo vedono? Cosa chiederebbe?]
Mi piace l’idea che possa dire “renditi conto di dove sei: tu sei qui”. Per quanto ogni luogo possa essere percepito come banale, in realtà lì è dove sei in quel momento. Anche l’idea di immaginarsi in un punto all’interno della rete di canali, di localizzarsi in quella mappa che non è quella delle strade a cui siamo abituati, ma è un’altra mappa, sotterranea. Renditi conto che tu sei proprio in quel punto.
[Se fosse una richiesta ancora più specifica?]
Sii consapevole [leggo “non dare nulla per scontato” e mi commuove]. Il canale ti riporta a tutto: qui probabilmente una volta c’erano dei mulini, luoghi in cui le persone andavano a lavare, tutta quella zona era completamente aperta su Città Alta e il fatto che ci fossero i canali la rendeva sfruttabile. “Non cancellare, non dimenticare”. Possiamo attivare percorsi di memoria partendo davvero da niente – questo è un aspetto che in generale mi interessa, mi piace. Tra l’altro ho fatto vedere la foto del Performatorio ad una delle mie migliori amiche e ho scoperto che era il negozio di sua zia, ci lavorava suo padre [la trovo una bellissima coincidenza], avevano un sacco di commissioni e lui andava ad “attaccare” tappezzerie in Libia [mi meraviglia che la traccia di questo gesto – attaccare, ricoprire, rivestire una parete - si sia manifestato da sé, prima ancora che Eleonora conoscesse la storia di questo luogo]. È strano…
[Cosa ti porti via da questa esperienza?]
Mi è piaciuto fare un lavoro qui, a Bergamo [hai finalmente “esplorato” la tua città], mettermi in un aspetto progettuale, oltre che collaborare con voi. È stato bello dare senso a questo luogo, e mi piace l’idea di poter raccogliere altro materiale, anche sulla storia del quartiere, come punto di partenza per una documentazione. Banalmente anche pulirlo mi è piaciuto: pulire i vetri, svuotarlo, spostare tutto, vederlo un po’ nudo… lo fai un po’ tuo [come in una relazione intima].
Nella mia ricerca mi è capitato di lavorare in luoghi abbandonati, per esempio mi è capitato di fare un lavoro sulle zone terremotate del Centro Italia per il quale avevo fatto questa ricerca sui terremoti antichi, però alla fine i soggetti delle immagini erano sempre spazi in cui non c’erano evidenti tracce di terremoti, c’erano segni di vissuto. Mi interessano in generale i luoghi dimenticati perché è bello riscoprirli, ma è bello anche semplicemente fare un intervento che ti permetta di spostare lo sguardo [“spostare lo sguardo” è qualcosa che mi arriva forte dal lavoro di Eleonora. Verso il basso, verso la rete invisibili di canali per collocare il Performatorio e chiederci di localizzarci, di guardarci attorno].
Mettere la mappa sulla carta è stato anche un modo per utilizzare qualcosa di non invasivo: una greca estremamente legata allo spazio, una ragnatela che ricopre tutto all’interno. In fondo è un disegno di come quello spazio si relaziona con tutta la città, che va a rivestire il suo interno, ma che io non scelgo in fondo perché è già lì, non faccio altro che spostarlo. Senza che questa scelta sia una mia decisione arbitraria [Rivolgere lo sguardo, cambiare le coordinate, provare a muoverci in una direzione che non sia sempre quella a cui siamo abituati, cosa succede se cambi i termini di relazione con uno spazio? Se metti la testa fuori dalla caverna?].
Eleonora Quadri è un'artista con base a Bergamo. Ha partecipato a mostre e residenze in diverse istituzioni tra cui Izolyatsia a Kiyv, Hangar a Lisbona, Fondazione Fabbri, Murate Art District di Firenze, l'Istituto Italiano di Cultura a Berlino, MATA di Modena, Palazzo Lucarini a Trevi, Fondazione Carlo Gajani.
“Ho una formazione in storia dell’arte e in fotografia. Mi interessa partire dai luoghi e dalla loro storia, avvicinarmi fino a scoprire un elemento da cui partire per costruire una narrazione. Intreccio fotografia, video, materiale d’archivio e scrittura cercando un equilibrio tra i linguaggi, creando corrispondenze, richiami o contrasti tra gli elementi posti nello spazio, che funzionano come pesi, come aderenze, calchi e nascondigli per le storie da cui parto”.