Nella realtà
Una conversazione con Fiorenza Menni e Andrea Alessandro La Bozzetta, per Ateliersi.

[Chi è Ateliersi? Cosa fa e, soprattutto, perché lo fa?]
(Fiorenza) Ateliersi è un riflessivo che non esiste, indica il fare di sé stess* un luogo laboratoriale - un atelier. Ha due modi di essere pronunciato e anche due modi per essere scritto: “Ateliersi” tutto attaccato è la compagnia, la parte creativa, mentre “Atelier Sì” è il luogo, lo spazio che abbiamo la grandissima fortuna di abitare qui a Bologna. È uno dei teatri riconosciuti dal Sistema Teatrale Bolognese ed è la nostra casa, la nostra sala prove, il luogo dove viviamo e scriviamo, dove ospitiamo delle residenze, dove lavoriamo e che vogliamo condividere, proprio per il suo significato, con altri artisti e artiste.

La compagnia, invece, è quello che noi siamo attraverso la scrittura, che intendiamo come un perfetto e meraviglioso percorso di conoscenza: da quando costruisci lo spettacolo andando alla ricerca del materiale che non conosci – un grandissimo lusso e dovere e diritto allo studio – fino a quando, poi, trasformi tutto questo materiale in una scrittura scenica.

Le nostre sono per lo più scritture originali, ci diverte stare sempre nella realtà e tentare di condensare senso attorno ad essa.

Siamo una decina di persone che più o meno lavorano quotidianamente attorno al nostro progetto, più varie collaborazioni, tra cui anche quella con Andrea che in realtà era già un amico e un collaboratore prima ancora che Ateliersi esistesse.

[Qual è il perché di Ateliersi?]
(Fiorenza) La ricerca – il bisogno – di un luogo di azione libera, di movimento autonomo e pieno di libertà. E non potrebbe essere altrimenti.

Quando si intraprende un percorso nel teatro, nell’arte, ma anche la vita è così, un percorso che ti porta a dei bivi: devi scegliere sempre. Noi ci siamo accort* che le scelte che facciamo solo quelle che ci permettono di stare nella profondità degli argomenti e dei temi che vogliamo trattare e anche - non so se è corretto dirlo così - nel benessere relazionale. Una volta il luogo d’arte mi sembrava un lusso, lo dicevo sempre anche nei percorsi di formazione – “Abbiamo un grande lusso a stare qua, a lavorare qua” – mentre adesso mi sembra qualcosa di necessario e doveroso fare, si deve fare fatica, e se ne fa tanta, si devono conquistare questi luoghi dove è ancora possibile lavorare in questo modo.

[Da luogo di “lusso” a luogo di “resistenza”. Non a caso oggi l’Italia non è un paese felice per chi fa teatro e più in generale si occupa d’arte.]
(Fiorenza) E non sappiamo neanche cosa ci aspetta. 

[Secondo te qual è il ruolo dell* artist* nella società?]
(Fiorenza) Sto studiando Carla Lonzi in questo periodo e non riesco a togliermi dalla testa la sua visione sull’arte - un ambito troppo compromesso con il patriarcato che si fa fatica a superare. E così è l’idea di “artista”, dobbiamo pensare a un orizzonte collettivo.

Non amo mettere l’artista in una posizione diversa, per me è uno stare nella vita come una qualsiasi altra persona sta nella vita.
Mi spiego: Ateliersi è qualcosa che faccio con Andrea, che è un compagno d’arte, ma faccio anche con Greta che è l’amministratrice; costruiamo la stessa cosa. Sì, è vero, il nostro contenuto è la creazione e la creazione è il luogo del discorso alternativo, della ricerca, del linguaggio, dell’accoglienza, perché sempre di più deve esserlo, ma questo lo si fa a tutti i livelli e con tutte le persone che ci lavorano. È necessario.

Ci chiamiamo “collettivo”; non amiamo le differenze.

L’arte per me è un luogo, è qualcosa che tutte le persone hanno in potenza e tutte le persone possono comprendere. Si dice che ci si avvicina all’arte; secondo me ci si allontana dall’arte. Alcune persone per la loro storia o per altri motivi scelgono di allontanarsi.



[Parliamo di “Freedom Has Many Forms”: di cosa si tratta e cosa è importante sapere?]
(Fiorenza) Questo lavoro è nato alcuni anni fa, nel 2015, in maniera parallela a un altro progetto sul tema delle scritte “Boia-concerto breve per imbrattamenti, voce e sintetizzatori”.

A un certo punto, trovavo divertente l’idea di creare una sorta di pata-lezione o pata-convegno utilizzando il materiale che avevo raccolto, ma non ero la persona adatta per farlo, non avevo lo spirito creativo e di scrittura di cui questo progetto aveva bisogno. Quindi, ho pensato ad Andrea e gli ho chiesto: “Avresti voglia di co-scrivere questo lavoro?” In realtà altro che co-scrivere… Andrea ne ha poi fatto una sua ricerca grandissima!

(Andrea) Come diceva Fiorenza, si tratta di un progetto nato a Bologna nel 2015, che comprendeva più parti (ndr - “Urban Spray Lexicon” è un progetto composto da tre capitoli: “Boia”, “Se la mia pelle vuoi” e “Freedom Has Many Forms”). “Freedom Has Many Forms” è una lecture-performance nella quale, in maniera antiaccademica e nell’arco di un’ora, innesco una sorta di diaporama partendo dalle scritte sui muri, che racconto o commento con aneddoti, storie e curiosità. Utilizzo frammenti di film che racchiudono una serie di argomenti collegati alle scritte, ma anche fotografie, libri e brani musicali.

Fiorenza, appunto, mi aveva proposto di occuparmene, ho accettato e da quando ho iniziato non mi sono più fermato… Diciamo che sia il progetto sia la struttura in sé del lavoro si prestano a un costante aggiornamento, tanto che il mio personale rapporto con le scritte non si è più interrotto da allora. È una costante ricerca. E un continuo inviarsi scritte! Magari scopriamo cose nuove, o accadono cose nuove che presentano maggiore forza e meritano di essere condivise con il pubblico. Quindi il lavoro cambia e si aggiorna.

È un progetto che amo tantissimo, e forse anche il più longevo perché non si conclude, non si ferma.

[Vedo che ti diverti molto anche solo a raccontarlo. Cosa ti aggancia di questo lavoro?]
(Andrea) Le scritte sui muri testimoniano tutto ciò che accade. Per me sono un indicatore di vivacità e di consapevolezza degli abitanti di una città; la presenza delle scritte ti restituisce l’idea dell’aria che tira in una città - quanto è abitata, quale consapevolezza c’è... Perché le scritte possono essere di matrice diversa, dalle più semplici, come quelle calcistiche, a quelle a tematica amorosa, filosofica, esistenziale o politica: hai la possibilità di confrontarti con diverse sfaccettature del pensiero. Inoltre, si crea sempre un gioco di strane connessioni, come quando cammini per strada, alzi lo sguardo e ti cade l’occhio su una scritta che, non si sa mai perché, ha una relazione specifica con quello che stai vivendo in quel determinato periodo o con delle cose che ti stanno accadendo - mi diverte molto questa cosa.

[Se le scritte sui muri trasformano le città in uno spazio scenico, cosa ci stanno raccontando oggi? Per esempio, cosa dice Bologna?]
(Fiorenza) Bologna in questo momento, sui muri, è esplosa! Un’esplosione che si nota anche nelle dimensioni dei caratteri e nei posizionamenti delle scritte. La zona universitaria è pazzesca, piena di scritte esistenziali e politiche. E dicono cosa si vuole: non si vogliono i confini, si vogliono aiutare le persone, accogliere le persone, non si vuole la guerra, si vuole la Palestina libera, non si vuole Salvini, si vogliono i gattini ma non Salvini…

(Andrea) E qui mi collego a un’altra questione che riguarda “Freedom Has Many Forms”: le scritte sono un oggetto volatile, perché compaiono ma scompaiono con altrettanta velocità, specialmente quando sono scritte di accusa, che indispongono puntando il dito e allora ecco che per la città è meglio farle scomparire perché potrebbero causare agitazione.
Sul ponte della stazione di Bologna ho avuto la fortuna di fotografare la frase “Chi vuole morire per la patria lo faccia in fretta”. Sarà durata cinque giorni. Tosta. Ma reale.





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