[Quando si parla di performance si è soliti pensare alla presenza, fisica, del corpo, che spesso coincide con quello dell’artista. Nella tua pratica, invece, la performance si libera in un certo senso da questa “etichetta” e il linguaggio si espande attraverso altri media. Qual è il tuo interesse? Ti va di descrivermi la tua ricerca?]

Il corpo è al centro del mio percorso, della mia pratica e della mia ricerca… più che la performance. Io non sono un performer e non uso strettamente il medium della performance art, soprattutto nella sua accezione più storica e radicale che come dici tu prevede una coincidenza tra il corpo esposto e quello dell’artista. Penso al mio lavoro come un lavoro sul corpo, mio e degli altri. Un lavoro di contatto e di superficie (non superficiale), sicuramente di esposizione e apertura in cui l’individualità non è mai osservata in modo univoco, ma entra costantemente in relazione alla collettività… “singolare-plurale” citando le parole di Jean-Luc Nancy.

[Che ruolo ha per te il pubblico?]

Il pubblico è centrale nel mio lavoro, io credo che il pubblico sia l’unica componente che contraddistingue quello che chiamiamo performance. Se non c’è pubblico non c’è performance: senza uno spettatore, colui che guarda, non c’è spettacolo… incluso quello della vita di tutti i giorni. Pensiamo agli abiti, i vestiti in cui entra il corpo, esistono anche da soli, sono degli oggetti e rispecchiano la nostra soggettività, ma li indossiamo per relazionarci agli altri, per esporci: con un gioco di parole… li abitiamo. In una performance “Oh boy! Body Nobody” chiedo al danzatore e coreografo Jacopo Jenna di svestirsi e vestirsi senza mai smettere di danzare. Si tratta di un gesto quotidiano, fatto in una dimensione pubblica, che viene stravolto nei suoi movimenti danzanti e diventa qualcos’altro, facendoci perdere la nozione di identità.

Oh boy! Body Nobody, 2017-0ngoing


[Che relazione c’è tra la componente visiva e quella sonora nelle tue opere?]

Il suono per me è molto misterioso… Da adolescente suonavo il flauto traverso e la mia maestra mi disse che non avevo il senso del suono e della musica. Questo breve ricordo, qui esposto, fa parte delle piccole vendette che ti prendi sul passato.

Alcuni anni fa facevo da dj… pur non avendo nemmeno un’idea di come mixare tra di loro le canzoni e non volevo neanche impararlo, le tagliavo o producevo dei silenzi… mi chiamavano Dj Robespierre!

La musica per me è un elemento fondamentale che si relaziona al corpo e alle sensazioni, lavorare al film “La discoteca” in cabina di montaggio audio mi ha fatto scoprire un universo sconosciuto. Mi era già capitato di vedere dei film solo ascoltandoli, l’ho fatto anche pubblicamente al MACRO di Roma proiettando solo la traccia sonora di “Profondo Rosso” di Dario Argento. Dario e i suoi fans non hanno molto apprezzato, ma per me fu un omaggio alla sua visionarietà.

Bellissimo ascoltare “Twin Peaks” del 2017… devi provare!

Non ho proprio risposto alla tua domanda, ma va bene uguale.

Throwing Balls at Night, 2016


[“La discoteca” è un film del 2021 ma è quanto mai attuale per i temi che porta - il controllo dei corpi e delle emozioni, i luoghi della socialità e la performatività del sé. Da dove nasce l’idea di questo lavoro?]

Nasce dal fatto che mi mancano quegli ambienti dove il baluginio delle luci incontra odori bizzarri e tutt* si vestono, svestono e ballano… Forse è un percorso di avanzamento dell’età a cui ho reagito inventandomi una storia che potesse farmi continuare ad abitare questi luoghi che non voglio lasciare. Ho iniziato immaginandomi rose, zombie e discoteche, il primo trattamento era una storia horror con in mezzo dei pezzi di canzoni italo-disco. La produzione quando l’ha letto tra un po' sviene, perché tutto questo nel cinema deve essere costruito e necessita molti soldi.  Mi ricordo che nel primo trattamento c’erano delle rose che bruciavano. Mi dissero subito che far bruciare una rosa è problematico perché devi usare materiali appositi, chiamare l’esperto e tutto questo ha un costo etc etc.; per me non è così, il cinema è la possibilità di illuderci e guardare una rosa che brucia senza mai diventare cenere… se hai dentro un’immagine cosi, questa si trasformerà in qualcosa che in un modo o nell’altro potrai realizzare.

La discoteca, 2021


[Oggi siamo sempre più immersi nella narrazione e i social fanno ormai parte della nostra vita, tutto ciò che fruiamo è inserito dentro a un racconto espanso e transmediale: in che modo vedi la relazione tra social e pratica performativa?]

Per i social, come per ogni pratica e linguaggio, c’è da una parte un senso di costrizione e dall’altra la possibilità di utilizzare il mezzo a piacimento creando delle possibilità inesplorate. I device sembrano cosi alienanti e alieni perché appunto sono degli intrusi che si intromettano nel linguaggio per poi cambiarlo.

William S. Burroughs disse: “Language is a virus”.

Si può anche dire che Body is a virus, Performance is a virus o, pensando a Gertrude Stein, “ A virus  is a virus is a virus is a virus is a virus...”

“A rose is not a rose” è l’inizio del film “La discoteca”.

[Mi piace tantissimo il modo in cui, nelle tue opere, i riferimenti visivi si mescolano - il mondo della danza classica con quello delle ballroom, l’immaginario della discoteca con il racconto fantascientifico - e mi viene in mente anche qui il tuo esempio dei fiori che creano armonia nella diversità. Quali sono le autrici e autori che influenzano oggi la tua ricerca?]

Come vedi ti ho citato già autori, autrici, colleghi, amici… credo che una ricerca non sia mai un fattore individuale.

Se penso a un giardino ci sono le siepi, gli alberi, le piante: Isa Genzken, Walter Siti, Kenneth Anger, Ari Aster, Jordan Peele, Kai Althoff, Jérôme Bel, Meris Angioletti, Michael Jackson, Trisha Donnelly, Eva Robin’s, Sturtevant, John Waters, Giuliano Scabia, Pauline Curnier Jardin, Sonia Gomez, Kinkaleri, Jean Cocteau, Alessandra Mancini, Tomaso Binga, Yukio Mishima, Chiara Fumai, Miranda July… per citare solo alcuni nomi che mi vengono nell’immediato, ma ce ne sono molti altri.

Nel giardino… ci sono anche i fiori; questi sono gli studenti e le studentesse che in questi ultimi anni mi hanno fatto scoprire nuovi aspetti della ricerca artistica.


[Ti va, per cominciare, di inquadrare l’ambito di cui ti occupi e come ci sei arrivato?]
Mi sono formato come sociologo dell’alcol e delle altre droghe poi, sia nel fare ricerca in questo campo sia per le mie esperienze personali, ho cominciato a interessarmi a due temi: la ricerca del piacere, connesso all’uso di sostanze legali e illegali (scarsamente considerato dalla ricerca accademica - il che mi sembrava un’assurdità perché la maggior parte delle persone utilizza sostanze per provare piacere…) e, allo stesso tempo, il contesto dei club di musica elettronica - spazi normati all’interno dei quali le persone speriementano, appunto, molti e diversi tipi di piacere… Dopo di che mi sono interessato ai Night Studies: un campo di ricerca interdisciplinare sullo studio della notte - non soltanto collegata ai club ma anche ad altri spazi e pratiche.

[Di cosa parliamo quando parliamo di piacere?]

In una visione capitalistica come quella contemporanea il piacere è sempre il prodotto di qualcosa (leggi un libro, mangi qualcosa, pippi una striscia di coca etc.) e la conseguenza di qualcosa; viene prodotto dal consumo e finisce lì.

Nella prospettiva che adotto, invece, si osservano gli aspetti generativi del piacere, ovvero cosa ci insegnano le esperienze edoniche e in che modo ciò che viene appreso si pone in un processo di resistenza rispetto a specifiche norme sociali. Per esempio, come le esperienze del clubbing servono alle persone per riscoprire il proprio corpo: danzare è una cosa che solitamente non ci viene insegnata o, anche quando questo accade, viene fatto in maniera normativa… C’è questa ossessione del “non sono capace di ballare”, quando invece la danza è la risposta che il corpo dà alla musica… non dovrebbe essere così normata. Attraverso la danza e attraverso la musica le persone possono riscoprire alcuni movimenti e alcuni piaceri che può dare l’esperienza del ballo.
Tutto ciò, inserito in un quadro contemporaneo di anestesia sociale; il clubbing all'opposto offre un possibile risveglio dei sensi, la possibilità di utilizzare il proprio corpo come fonte di piacere e in maniera più consapevole, contrapponendosi all’idea che il corpo sia solo una superficie o qualcosa che deve essere modificato secondo determinati standard…

"Notti Tossiche, Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere", Meltemi 2020

[È anche un modo per prendere contatto con sé stessɜ e con l’esterno…]

Certo, relazionarti con l’esterno attraverso la parola, per esempio, è diverso rispetto al farlo con il tuo corpo… E parlo di un corpo che non sta soffrendo o che si vuole modellare attraverso la fatica, come per esempio quello della palestra... È un corpo che si lascia andare, un corpo gioioso, che sta godendo.

Poi, ovviamente, il corpo che non segue la norma non è lo standard, anche nei club il corpo che attraverso il ballo può apprendere, e resistere alla normalizzazione, si scontra con altri usi che invece sono a favore dell’omologazione, del giudizio, etc… Le norme sono qualcosa che cominciamo a introiettare sin dalla nascita, per un processo di socializzazione che è terribile… Quindi, quando parlo di discoteca, sono consapevole del fatto che ci siano continui meccanismi di controllo - non è che se prendi una droga sei libero, tutt’altro… però nel club si aprono degli spazi di riflessione che sono importanti.

[In che modo questo approccio si traduce in azioni all’interno delle discoteche?]
Quello che si può osservare, è che per esempio tutte le strategie di awareness hanno una visione comune… magari sono interessate a temi più specifici, come la riduzione del danno o il contrasto degli abusi ma la direzione è la stessa… Ognuno opera nel proprio ambito per fare in modo che l’esperienza collettiva sia il più possibile gioiosa, e senza interferenza.

È un tema su cui c’è molta attenzione… il problema è che, come spesso accade in Italia, ci sono molte iniziative fantastiche che vanno avanti, però, nel discorso pubblico, i temi collegati alla notte e al divertimento notturno vengono semplificati e banalizzati. Un caso eclatante è quello della “movida”: si parla solo di disturbo e problemi per i residenti… non si va a vedere quali sono le origini della movida e perché si è arrivati ad avere i centri cittadini invasi dalle persone, o quali sono le norme e i processi, sociali ed economici, che hanno portato a un fenomeno sociale che prima non c’era…

“Secchiate”, per esempio (n.d.r.: la newsletter sulla notte di cui Enrico è fondatore insieme a Giorgia Castellano e Riccardo Ramello), nasce proprio con l’intenzione di dare spazio a certi temi trattandoli in maniera più dettagliata, senza che vengano subito inquadrati attraverso le solite cornici di senso e quindi come secondari rispetto a problemi più rilevanti…

Pubblicità Progresso, 1989

[Da cosa dipende questa banalizzazione?]
Io uso sempre la frase di Orson Welles nell’episodio “La ricotta” del film di Pasolini “Ro.Go.Pa.G.”, che dice: “La borghesia più ignorante d’Europa”. Non so come dire… c’è tanto, ci sono gruppi, studiosi che lavorano su questi temi, ci sono le reti internazionali… però poi, quando si arriva a quel livello ulteriore per cui queste informazioni dovrebbero essere diffuse, viene posto un limite. E potrebbe sembrare un’affermazione un po’ paranoica, ma se andiamo a guardare la storia della sinistra, certi temi sono sempre stati più importanti, certe soggettività sono state eliminate dal partito – perché se sei tossico sei un borghese, se sei frocio sei un borghese – e così non si fa in modo di collettivizzare le lotte - o come cazzo vogliono chiamarle…

Campagna istituzionale, 2023

[Quando parliamo di discoteca – hai specificato – ci riferiamo a uno spazio normato all’interno del quale ritroviamo determinati codici: che cosa intendi, in questo contesto, per resistere attraverso il piacere?]

Ti farei notare il controsenso per cui le discoteche nel discorso pubblico sono narrate come luoghi di trasgressione, anche se non lo erano neanche all’inizio… Si tratta di un fenomeno che ha più di 40 anni… niente di nuovo. Il clubbing e la musica elettronica non sono niente di nuovo e non c’è niente di trasgressivo… Ma non perché uno spazio è normato – e questa è la cosa bella che emerge da “Notti tossiche” – non diventa uno spazio politico in cui ci si può inserire e in cui si può esplorare quali sono i margini di azione per rispondere a tutti i processi di disciplinamento dei corpi e delle soggettività, tipici della nostra società neoliberista. Il fatto è che le discoteche, con il ballo e l’uso delle sostanze, danno un ampio margine di sperimentazione alle persone. E quindi, anche se il corpo e i movimenti sono normati, così come lo è anche la presentazione estetica delle persone, accade che con il proseguire delle ore, nelle discoteche, tutte quelle norme vadano un po’ a farsi benedire... L’iperstimolazione porta le persone a fare delle esperienze che contrastano l’ipercontrollo che governa i pensieri, il modo di essere, la quotidianità. Ciò che mi ha sorpreso nelle interviste di “Notte tossiche” è come la discoteca, il ballo, l’uso delle sostanze e la socialità aiutavano le persone a “smettere di pensare”. Molte delle persone intervistate avevano bisogno di uno spazio in cui stare tranquille… Il pensiero non era visto da un punto di vista illuminista; non era qualcosa di liberatorio, di positivo, che ti dà qualcosa in più… Era vissuto come ossessivo, qualcosa che ti perseguita durante il giorno perché hai mille cose a cui pensare, mille giudizi introiettati…

[Non so se centra ma, in effetti, mi viene in mente che i primi “esperimenti” su chi e come volevo essere al di fuori delle norme dettate dalla famiglia o dalla scuola, li ho fatti proprio in discoteca… Forse la discoteca mi ha aiutata a imparare qualcosa che poi ho portato anche fuori…]
Quello che dici mi risuona molto perché, pensa, se questo ha funzionato nella provincia italiana… Voglio dire, la possibilità di sperimentare nuove forme di essere, dipende dalla storia del clubbing. Se andiamo a guardare la storia della musica elettronica e della socialità danzante, il modello del clubbing contemporaneo nasce in una città, New York, tra gli anni 60 e gli anni 70, quando a creare il clubbing sono state tutte quelle persone, che Tim Lawrence (nel bellissimo "Love saves the day: A history of American dance music culture, 1970-1979") battezza party pariahs, escluse dalla società americana benestante e dalla controcultura hippy del tempo, che trovavano, nel clubbing, uno spazio d’espressione del quale – in una società etero-normativa razzista – avevano bisogno.

Dal mio punto di vista si tratta ancora di uno spazio di possibile critica sociale, perché nei club di musica elettronica il nostro modo di comportarci si contrappone alle norme, quindi queste diventano ancora più esplicite ed evidenti, e così possiamo esserne consapevoli.
Per questo, come sono stati importanti i rave negli anni 90, oggi lo è il clubbing. Siamo cresciuti come piccoli manager, ossessionati dalla competizione e dal miglioramento costante… ci definiamo attraverso il lavoro, da adulti e anche da studenti, purtroppo…
Certo, la discoteca può anche essere un rinforzo a questa mentalità – perché se ci vai per essere il più figo, il più alternativo o il più drogato, chiaramente riproduci questo schema – ma se la discoteca si oppone a quella che i sociologi italiani Chicchi e Simone hanno chiamato “Io-crazia”, e istituisci un atteggiamento di aiuto reciproco e comunità, allora riesci a sospendere questa modalità manageriale e fare esperienza di un altro modo di stare al mondo, mentre balli. Questa è resistenza!

E se assieme alla mente viene il corpo, che oggi è sempre più una superficie a cui attribuire significati o da modellare secondo alcuni standard, e sempre meno uno spazio in cui fare esperienza - a meno che queste non siano estreme – come il bungee jumping o lo sport estremo… Il clubbing invece, è fondato sull’esperienza tra corpo e musica, che è carnale. Non vai ad ascoltare un dj, vai a ballare con le altre persone, in quello spazio caldo e appiccicaticcio che è il dancefloor.

A cura di Invisible°Show.

[English extended interview: On silencing, aging, and the implicated body on stage]
 

[Come percepite le istituzioni culturali oggi e quali sono le sfide che affrontate per confrontarvi con questo sistema?]
Adrienne: Nutro seri dubbi riguardo al finanziamento pubblico per le arti; sembra spesso uno strumento di controllo. Vivendo in Germania, devo essere cauta nel parlare di questioni come la Palestina e Gaza e nel sostenere movimenti come il BDS. Credo che questo strumento di controllo abbia avuto un effetto intimidatorio sulla libertà di parola nel mondo dell'arte. Vogliamo sfidare il funzionamento di questa macchina da guerra, disturbarla e, alla fine, smantellarla.

Kate: Concordo, specialmente riguardo all’oppressione delle voci pro-Palestina. Tuttavia, il meccanismo di controllo si applica anche a temi come il sex work, la queerness e l’antiviolenza. Sembra che ovunque ci sia molto denaro, ci sia controllo. Non a caso, la maggior parte del nostro lavoro è autofinanziato, il che ci dà più libertà di parlare senza temere ritorsioni.

[Pensate mai a come il vostro corpo sia uno strumento o un ostacolo per fare arte?]
Kate: La mia strategia consiste nel dare priorità al nutrire il mio corpo come parte della mia sopravvivenza. Se non posso permettermi le lezioni di danza, accetto lavori  che hanno a che fare con la danza e li utilizzo come opportunità di scoperta fisica. Ho sempre considerato ogni lavoro come un'occasione per prendermi cura del mio corpo, non solo per guadagnare denaro. Se non posso permettermi un taxi, faccio lunghe pedalate in bicicletta, trasformando ciò che potrebbe sembrare un sacrificio in un'esperienza benefica.

Adrienne: Percepisco il limite dei nostri corpi, sai, come se si stessero sempre più consumando e avvicinando a un punto in cui l'unità di energia, metabolismo e tutto ciò che ci mantiene... Beh, quell'unità non esisterà più. Ma Non sono pessimista sull'invecchiamento, perché con l'invecchiamento ci saranno altre cose che potrò fare con il mio corpo.

Ph. Marketa Bendova

[A proposito di invecchiamento, cosa pensate del valore performativo della giovinezza?]

Kate: Dobbiamo resistere attivamente alla tendenza di percepire gioventù e vecchiaia come una dicotomia, poiché i nostri corpi continuano a evolversi. Sebbene ammiri la disciplina de* ballerin* che cercano la perfezione fisica e la flessibilità, metto in discussione l'idea di superarsi continuamente fino a raggiungere un culmine, oltre il quale solo il declino sembra imminente. Trovo ispirazione in figure come Kazuo Ōno, il ballerino Butō che ha iniziato il suo percorso di danza in tarda età, mostrando la bellezza e la ricchezza dei corpi invecchiati.

Adrienne: L'esempio di Ōno come ballerino mi colpisce profondamente. Credo che il suo lascito metta in evidenza l'importanza dei corpi più anziani nel campo della danza. Riguardo al Butō, la mia idea è che si tratti di accedere alle energie che sono all'interno del proprio corpo, una pratica che non è limitata dall'età o dalle capacità fisiche. Ho imparato che le performance meno incentrate sulla rigorosa disciplina fisica possono spesso evocare emozioni più profonde.


Ph. Emre Birisman

[Come fate a portare sul palco, esteticamente, le vostre idee?]

Kate: Quello che si indossa è particolarmente importante: non si può sempre controllare come il pubblico lo interpreta. Spesso mi ritrovo a ricorrere al corpo nudo come espressione più autentica, non in senso sessuale, ma come rappresentazione cruda di sé, priva degli status intrinsechi del vestiario (perché tutti i vestiti portano segni e simboli, e tutti i vestiti sono fatti da persone lavoratrici). Quando abbiamo usato i costumi, lo abbiamo fatto esplorando temi come il BDSM o la carica sessuale dei corpi queer, sfidando le nozioni tradizionali. Abbiamo anche usato il body painting che, sebbene inizialmente servisse a comunicare un'estetica ultraterrena e gender-neutral, alla fine abbiamo rivalutato le sue implicazioni, in particolare riguardo alla razza e al colorismo. Abbiamo capito che il body painting poteva involontariamente oscurare le discussioni sulla razza, pertanto, abbiamo deciso di smettere di utilizzarlo.

Adrienne: Forse non avremmo dovuto smettere del tutto di utilizzareil body painting. Invece, avremmo potuto integrarlo in modo diverso, come lavandolo durante la performance per simboleggiare il nostro rapporto in evoluzione con esso e la nostra consapevolezza. Dobbiamo rinunciare a un certo controllo su come le nostre idee, filtrate attraverso il corpo, vengono interpretate dalle altre persone. Mi viene in mente un esempio che coinvolge il mio nipotino di tre anni. Quando sua madre era di nuovo incinta, ha iniziato a fare questo gesto, invitando gli altri a toccargli la pancia e ad ascoltarla, come se anche lui fosse in attesa. Io non so se lui ne fosse convinto o meno ma la sua performance comunicava i suoi pensieri e dilemmi sul cambiamento imminente e sull'arrivo di una nuova vita. Assistere alle sue azioni mi ha spinta a riflettere sul mio stesso rapporto con il mio corpo.

[Chi è Ateliersi? Cosa fa e, soprattutto, perché lo fa?]
(Fiorenza) Ateliersi è un riflessivo che non esiste, indica il fare di sé stess* un luogo laboratoriale - un atelier. Ha due modi di essere pronunciato e anche due modi per essere scritto: “Ateliersi” tutto attaccato è la compagnia, la parte creativa, mentre “Atelier Sì” è il luogo, lo spazio che abbiamo la grandissima fortuna di abitare qui a Bologna. È uno dei teatri riconosciuti dal Sistema Teatrale Bolognese ed è la nostra casa, la nostra sala prove, il luogo dove viviamo e scriviamo, dove ospitiamo delle residenze, dove lavoriamo e che vogliamo condividere, proprio per il suo significato, con altri artisti e artiste.

La compagnia, invece, è quello che noi siamo attraverso la scrittura, che intendiamo come un perfetto e meraviglioso percorso di conoscenza: da quando costruisci lo spettacolo andando alla ricerca del materiale che non conosci – un grandissimo lusso e dovere e diritto allo studio – fino a quando, poi, trasformi tutto questo materiale in una scrittura scenica.

Le nostre sono per lo più scritture originali, ci diverte stare sempre nella realtà e tentare di condensare senso attorno ad essa.

Siamo una decina di persone che più o meno lavorano quotidianamente attorno al nostro progetto, più varie collaborazioni, tra cui anche quella con Andrea che in realtà era già un amico e un collaboratore prima ancora che Ateliersi esistesse.

[Qual è il perché di Ateliersi?]
(Fiorenza) La ricerca – il bisogno – di un luogo di azione libera, di movimento autonomo e pieno di libertà. E non potrebbe essere altrimenti.

Quando si intraprende un percorso nel teatro, nell’arte, ma anche la vita è così, un percorso che ti porta a dei bivi: devi scegliere sempre. Noi ci siamo accort* che le scelte che facciamo solo quelle che ci permettono di stare nella profondità degli argomenti e dei temi che vogliamo trattare e anche - non so se è corretto dirlo così - nel benessere relazionale. Una volta il luogo d’arte mi sembrava un lusso, lo dicevo sempre anche nei percorsi di formazione – “Abbiamo un grande lusso a stare qua, a lavorare qua” – mentre adesso mi sembra qualcosa di necessario e doveroso fare, si deve fare fatica, e se ne fa tanta, si devono conquistare questi luoghi dove è ancora possibile lavorare in questo modo.

[Da luogo di “lusso” a luogo di “resistenza”. Non a caso oggi l’Italia non è un paese felice per chi fa teatro e più in generale si occupa d’arte.]
(Fiorenza) E non sappiamo neanche cosa ci aspetta. 

[Secondo te qual è il ruolo dell* artist* nella società?]
(Fiorenza) Sto studiando Carla Lonzi in questo periodo e non riesco a togliermi dalla testa la sua visione sull’arte - un ambito troppo compromesso con il patriarcato che si fa fatica a superare. E così è l’idea di “artista”, dobbiamo pensare a un orizzonte collettivo.

Non amo mettere l’artista in una posizione diversa, per me è uno stare nella vita come una qualsiasi altra persona sta nella vita.
Mi spiego: Ateliersi è qualcosa che faccio con Andrea, che è un compagno d’arte, ma faccio anche con Greta che è l’amministratrice; costruiamo la stessa cosa. Sì, è vero, il nostro contenuto è la creazione e la creazione è il luogo del discorso alternativo, della ricerca, del linguaggio, dell’accoglienza, perché sempre di più deve esserlo, ma questo lo si fa a tutti i livelli e con tutte le persone che ci lavorano. È necessario.

Ci chiamiamo “collettivo”; non amiamo le differenze.

L’arte per me è un luogo, è qualcosa che tutte le persone hanno in potenza e tutte le persone possono comprendere. Si dice che ci si avvicina all’arte; secondo me ci si allontana dall’arte. Alcune persone per la loro storia o per altri motivi scelgono di allontanarsi.



[Parliamo di “Freedom Has Many Forms”: di cosa si tratta e cosa è importante sapere?]
(Fiorenza) Questo lavoro è nato alcuni anni fa, nel 2015, in maniera parallela a un altro progetto sul tema delle scritte “Boia-concerto breve per imbrattamenti, voce e sintetizzatori”.

A un certo punto, trovavo divertente l’idea di creare una sorta di pata-lezione o pata-convegno utilizzando il materiale che avevo raccolto, ma non ero la persona adatta per farlo, non avevo lo spirito creativo e di scrittura di cui questo progetto aveva bisogno. Quindi, ho pensato ad Andrea e gli ho chiesto: “Avresti voglia di co-scrivere questo lavoro?” In realtà altro che co-scrivere… Andrea ne ha poi fatto una sua ricerca grandissima!

(Andrea) Come diceva Fiorenza, si tratta di un progetto nato a Bologna nel 2015, che comprendeva più parti (ndr - “Urban Spray Lexicon” è un progetto composto da tre capitoli: “Boia”, “Se la mia pelle vuoi” e “Freedom Has Many Forms”). “Freedom Has Many Forms” è una lecture-performance nella quale, in maniera antiaccademica e nell’arco di un’ora, innesco una sorta di diaporama partendo dalle scritte sui muri, che racconto o commento con aneddoti, storie e curiosità. Utilizzo frammenti di film che racchiudono una serie di argomenti collegati alle scritte, ma anche fotografie, libri e brani musicali.

Fiorenza, appunto, mi aveva proposto di occuparmene, ho accettato e da quando ho iniziato non mi sono più fermato… Diciamo che sia il progetto sia la struttura in sé del lavoro si prestano a un costante aggiornamento, tanto che il mio personale rapporto con le scritte non si è più interrotto da allora. È una costante ricerca. E un continuo inviarsi scritte! Magari scopriamo cose nuove, o accadono cose nuove che presentano maggiore forza e meritano di essere condivise con il pubblico. Quindi il lavoro cambia e si aggiorna.

È un progetto che amo tantissimo, e forse anche il più longevo perché non si conclude, non si ferma.

[Vedo che ti diverti molto anche solo a raccontarlo. Cosa ti aggancia di questo lavoro?]
(Andrea) Le scritte sui muri testimoniano tutto ciò che accade. Per me sono un indicatore di vivacità e di consapevolezza degli abitanti di una città; la presenza delle scritte ti restituisce l’idea dell’aria che tira in una città - quanto è abitata, quale consapevolezza c’è... Perché le scritte possono essere di matrice diversa, dalle più semplici, come quelle calcistiche, a quelle a tematica amorosa, filosofica, esistenziale o politica: hai la possibilità di confrontarti con diverse sfaccettature del pensiero. Inoltre, si crea sempre un gioco di strane connessioni, come quando cammini per strada, alzi lo sguardo e ti cade l’occhio su una scritta che, non si sa mai perché, ha una relazione specifica con quello che stai vivendo in quel determinato periodo o con delle cose che ti stanno accadendo - mi diverte molto questa cosa.

[Se le scritte sui muri trasformano le città in uno spazio scenico, cosa ci stanno raccontando oggi? Per esempio, cosa dice Bologna?]
(Fiorenza) Bologna in questo momento, sui muri, è esplosa! Un’esplosione che si nota anche nelle dimensioni dei caratteri e nei posizionamenti delle scritte. La zona universitaria è pazzesca, piena di scritte esistenziali e politiche. E dicono cosa si vuole: non si vogliono i confini, si vogliono aiutare le persone, accogliere le persone, non si vuole la guerra, si vuole la Palestina libera, non si vuole Salvini, si vogliono i gattini ma non Salvini…

(Andrea) E qui mi collego a un’altra questione che riguarda “Freedom Has Many Forms”: le scritte sono un oggetto volatile, perché compaiono ma scompaiono con altrettanta velocità, specialmente quando sono scritte di accusa, che indispongono puntando il dito e allora ecco che per la città è meglio farle scomparire perché potrebbero causare agitazione.
Sul ponte della stazione di Bologna ho avuto la fortuna di fotografare la frase “Chi vuole morire per la patria lo faccia in fretta”. Sarà durata cinque giorni. Tosta. Ma reale.





A cura di Invisible°Show con la collaborazione di Gabriele Cerati.

[Suoni il rullante e basta. Una forma che sembra l’estrema conseguenza di  un percorso che riduce a zero la possibilità di definire la musica stessa. Dimmi di più!]

Sicuramente c’è il tentativo di rompere alcuni schemi, che è necessario per fare le cose in modo diverso, in modo nuovo, e che desti sorpresa. Nel mio caso l’obiettivo è ancora più ambizioso: generare una sorta di “shock acustico” nelle persone che vengono ad ascoltarmi.

[Credi che gli spettatori ti considerino un performer, un artista concettuale, un attore su un palcoscenico o un musicista? Credi che il tuo pubblico ascolti veramente ciò che stai suonando?]

Non mi definirei mai un performer perché la mia priorità è il suono e quello che tento di fare è “musica improvvisata”. Quando sto suonando mi chiedo: come faccio la prossima frase? Come sviluppo il brano? Non mi interesso all’apparenza, a come sembrerò nei prossimi cinque minuti di performance che mi servono per raggiungere quel determinato suono. Certamente c’è anche un aspetto corporeo, ma per me non è altro che un passaggio obbligato per raggiungere quel timbro o un certo ritmo; non è un obiettivo della performance.

Alcune persone vengono a sentirmi e chiudono gli occhi per ascoltare meglio. Ci sta, in effetti è quello che faccio anche io: immagino la musica e non me la dimentico più. Nasce nella mia mente e poi faccio quello che serve per farla arrivare alle bacchette, al rullante e al tavolo su cui poggia il rullante.

[Come ti fanno sentire le reazioni del pubblico? Come accogli il fatto che qualcuno possa ridere?]

Capisco benissimo che qualcuno rida alle mie esibizioni. Specialmente se non mi conosci, mi vedi e pensi “questo è solo un tipo strano”. Lo comprendo perché suono la batteria in un modo completamente diverso, come non è mai stato fatto prima. In Italia però mi è capitato di percepire, in generale, una maggiore serietà nei miei confronti: ho trovato persone di mentalità molto aperta e creativa e mi sono sentito preso molto sul serio.

[Le emozioni che provi quando ti esibisci cambiano ciò che stai per suonare? E, allo stesso tempo, suonare trasforma il tuo stato emotivo?]

Quando inizio a suonare vado fuori controllo e quindi non so dove sto andando o cosa provo. Questo mi sorprende ogni volta. Se prima di iniziare non sono nel mood, so che una volta impugnate le bacchette andrò sicuramente fuori controllo. Anche se fino a cinque minuti prima non me la sentivo di suonare. Parto e, una volta finito, non so dire come sia andata o cosa mi abbia attraversato. 

[John Cage prendeva ispirazione tanto dall’I-Ching quanto dalla televisione per la scrittura delle sue opere musicali. Parlaci dei tuoi riferimenti più insoliti!]

Anche io sono influenzato da molte cose, come gli anime o i video in genere. Ma sicuramente non dalla musica - non mi ispiro alla musica. Non ascolto mai musica per fare musica. Mi faccio ispirare dal silenzio e quindi dai suoni naturali circostanti e che si insinuano nel silenzio. Questo perché so che se ascolterò jazz farò jazz, se ascolterò rock farò rock, e così via. La musica degli altri darà una direzione alla mia. Voglio invece la neutralità, e mi sembra naturale che sia così. Allo stesso modo, quando suono in giro lo faccio da solo e rimango da solo, e dentro di me penso alla musica e parlo con me stesso di musica. Per quanto difficile possa essere, mi sembra un modo efficace per fare le cose diversamente. 

[La tua ricerca è un’esplorazione della voce come veicolo di incontro e metamorfosi. Perché proprio la voce?]
Il mio lavoro è un’esplorazione della voce e del linguaggio, un interesse che per me deriva dal fatto che 15 anni fa ero cantante e musicista - suonavo anche la fisarmonica. Mi interessavano i canti popolari e ho studiato i canti yiddish dell’Europa centrale e quelli del Salento italiano – per alcuni mesi ho vissuto a Lecce. Per me non era possibile cantare senza apprendere il linguaggio o passare del tempo con la comunità a cui quei canti appartenevano - è un po’ come conoscerne la cultura.

Quindi, il canto è diventato un modo per incontrare, un modo di pensare la mia posizione e la mia legittimità. Posso considerare la mia pratica attuale come una sorta di estensione di quel periodo: usare la voce mi permette di incontrare e di interessarmi sempre al linguaggio, al modo di essere di una comunità – umana o non umana.


[Il canto ti permette quindi di diventare parte di una comunità? In un certo senso di “parlare la stessa lingua”?]

È interessante questo, ma io resto sempre una straniera, quindi questo aggiunge altre domande riguardo alla metamorfosi e alla nozione di ibridazione che per me è molto importante. Perché appunto, non sono nata in Salento, non sono ebrea e non sono un uccello, per esempio.

Ovviamente il canto e la musica sono strumenti per incontrare una comunità e creano un legame molto forte ma il mio lavoro è su questa “terza zona” che sta tra me e loro, tra me e te, è la porosità tra due entità; è questo che mi interessa e come l’incontro ti trasforma.

Diventi altro quando incontri veramente qualcuno. Che sia una persona, un animale, un ambiente o un’entità, c’è un’intensità di relazione che fa sì che tu cambi e su questo aspetto, con la mia voce, provo a esprimere quello che Deleuze chiamava “devenir”: non sai più se sei tu o se ti stai confondendo con l’altro.

Hybird, performance, 30 min, 2017 © Valérie Sonnier.

“La voce è un meraviglioso mezzo di metamorfosi; si pensi ai cacciatori che attirano le loro prede con la voce, a quella comunità di YouTuber che riproduce il suono dei motori delle auto da corsa, o ancora ai "joiks" (canti) sami che restituiscono la presenza del vento, della montagna, di determinati animali... In un solo gesto, senza maschere, la voce consente di diventare simbolicamente un altro, o meglio, molti altri: è un accesso al molteplice.”

[Da un bellissimo carteggio incrociato tra Bruno Latour, Nastassja Martin e Violaine Lochu]

[Siamo nell’ambito della filosofia, il concetto di “terza zona” mi ricorda anche il concetto di “confine di contatto” nella psicoterapia contemporanea. Noto che la tua ricerca tocca molti aspetti della filosofia e delle scienze psicologiche.]

Sì, è vero, per me sono un’ispirazione. Lavoro spesso con ricercatori e ricercatrici, per esempio ho lavorato con la filosofa delle scienze Vinciane Despret e con l’antropologa Nastassja Martin, e mi interessa la psicologia, soprattutto la psicanalisi - ho studiato Lacan.

[Quando parli di metamorfosi cosa intendi?]

Intendo il divenire qualcos’altro che per me è anche uno stato vicino alla trance o all’ipnosi, uno stato di coscienza alterata: è quello che vivo durante la performance; una condizione speciale che per me coincide con l’essere performer e che consiste nell’andare a cercare quella “terza zona” tra la voce dell’altro e la mia.

[C’è un lavoro particolare che fai su di te prima di una performance, affinché tu possa ricercare questa condizione?]

Mi sa che è sempre stato così. A un certo punto ho capito di non essere molto normale… Ah ah ah!
Ho sempre fatto improvvisazione ma ho capito che non era scontato quello che facevo solo quando ho cominciato a studiare e i miei professori mi hanno fatto notare che avevo questa presenza, come dire, intensa.

È qualcosa simile alla meditazione per me: essere lì, nel presente, e accogliere sia ciò che è dentro di me sia ciò che sta attorno a me. Per me è stato piuttosto il percorso inverso, perché essendo qualcosa che faccio da sempre, a un certo punto ho dovuto trovare le parole adatte per tradurlo, per esprimere alle altre persone come mi sento quando performo.

[“Babel Babel” mi ricorda il lavoro dello psicoanalista e psichiatra Daniel Stern sull’esperienza dei primi anni di vita del bambino, in cui i bisogni come la fame, la sete, il piacere, il fastidio emergono in maniera dirompente e vengono espressi attraverso la voce. Che ruolo hanno le tue emozioni in questa performance?]
“Babel Babel” è una performance che ho realizzato nel 2019. Per un anno ho frequentato alcuni asili e in uno di questi che si trova dove abito, a Seine-Saint-Denis vicino a Parigi, ho osservato il legame tra i bambini e il personale dell’asilo, e ho registrato il balbettio dei bambini.

In questa performance la mia ricerca è molto simile a quello che hai detto: nei primi mesi di vita il bambino ha solo l’emozione della sua voce per comunicare, quindi tutto è estremo. La tristezza è estrema, il pianto per la fame diventa infernale, tutto è un dolore o una gioia.

In “Babel Babel” non provo a imitare, perché non avrebbe senso - non sono una bambina - ma cerco quella voce infantile dentro di me, una metamorfosi in cui “imitare” significa piuttosto cercare il bimbo e accoglierlo. Ho ascoltato molti bambini e anche io lo sono stata; c’è un accesso nel tuo corpo che ti permette di connetterti a questa parte di te.

[Che ruolo ha Il pubblico nelle tue performance?]

Il pubblico ha sempre un ruolo importante, poi dipende sempre da come è impostata la performance. “Babel Babel” per esempio ha un’impostazione classica, il pubblico è attorno a me e mi piace che le persone mi siano molto vicine. In questo caso non avviene un’interazione fisica diretta ma, allo stesso tempo, non è mai accaduto che qualcuno restasse neutrale davanti a questa mia performance.

Spesso le persone provano disagio, accade che qualcuno rida o pianga, le persone si sentono toccate in una reazione da voce a corpo e da corpo a corpo.

Altre performance, invece, hanno un’impostazione diversa. Per esempio in “Echotopia”, che ho fatto a settembre del 2023 al Padiglione francese della Biennale di Venezia, per una settimana, il pubblico partecipava in maniera diretta. Le persone venivano  invitate a stendersi, a porsi in una condizione vicina alla meditazione e poi a descrivere ai performer uno spazio – un ambiente – con cui avevano avuto un legame forte. Il risultato era un canto “ecotopico”: una sorta di traduzione della relazione delle persone con il loro ambiente.

In altre occasioni lavoro in gruppo, con persone che non sono performer, per esempio anche con la performance collettiva “Babel Babel” ho trascorso del tempo con il personale dell’asilo, che ha partecipato agli workshop e in questo caso le persone stesse sono diventate performer.

[Nei tuoi lavori utilizzi diversi media, oltre alla performance.]
Diciamo che parto sempre da una sensazione, da un’intuizione, che mi arriva perché sono immersa in un contesto particolare e che poi prende forma. La performance è la parte centrale del lavoro, il nervo centrale del sistema, a volte c’è un lavoro grafico, una partitura grafica – che può essere un libro o dei tessuti, in “Echotopia” era sui vestiti dei performer – e poi c’è una parte sonora - a volte utilizzo delle installazioni immersive con le voci delle persone o la mia stessa voce. Tutto questo – video, performance, disegni, suoni – è sempre collegato.

[In che modo sei arrivato alla performance?]
Sono arrivato alla performance perché per anni - per 5 anni - ho gestito un locale insieme ad altri amici: si chiamava Btomic, organizzavamo live di artisti che si esibivano soprattutto in solo, molto particolari… Dalla scena berlinese alla scena americana sperimentale. Un locale che ha prodotto un sacco di roba di una cultura che sta sparendo, quella underground, e che io sostengo fino alla morte perché è quella in cui sono nato, quando ancora i centri sociali facevano questo tipo di controcultura. La mia storia è questa.

Tutto quello che accadeva al Btomic veniva documentato; una specie di archivio. Abbiamo cominciato a produrre foto, video, interviste… Faccio un giro lungo per farti capire che dopo tutto questo percorso, nel 2016, mi è venuta la voglia – un’esigenza che mi è stata trasmessa da tutti gli artisti che sono passati da lì in quegli anni – di salire sul palco. E l’unico modo per farlo, per me, era con la fotografia. Così ho proposto ai Kinkaleri di studiare una performance dove la fotografia potesse permettermi di entrare. E da lì ho cominciato.

Ora, come artista, la fotografia è soprattutto il mezzo che utilizzo nelle performance, nel mio lavoro in studio la uso meno, ma nella performance è basilare. Entro fotografo ed esco performer – anche se non mi sento “performer”.

[Possiamo dire che è un modo diverso di fare fotografia? L’hai portata in mezzo alle persone.]
Quello che più mi attraeva era il contatto con il pubblico, il fatto che il pubblico diventasse proprio la storia, la drammaturgia. Alla fine quello che accade, è un tentativo di performance: io non riesco a fare delle prove, cado – come diceva Trisha Brown “Anche cadere è danzare” – e succede qualcosa. Mi muovo e succede qualcosa. Però non lo controllo, è dettato da tutto quello che mi accade intorno. Posso dire che il pubblico diventa proprio la performance; io coinvolgo il pubblico ma è lui – loro – che diventa, anche nella stessa fotografia di documentazione, parte integrante della performance – fondamentale.

ph. JB 2023


[Che effetto ti fa il pubblico?]
La cosa assurda è che non riesco a pensarci… Quando facevo le prime performance, con le proiezioni in tempo reale, suonando il microfono sul corpo e campionando, manco guardavo il pubblico perché mi terrorizzava.
Adesso provo amore e odio: mi viene voglia di spingere a me le persone, di abbracciarle, ma anche di allontanarle. Sai, Io non vado più nei locali, non vado in mezzo al casino – non sopporto più la gente – però quando faccio una performance diventa un momento intimo con chi partecipa. Per questo non voglio farle nei club: voglio avere un pubblico che è lì per partecipare a un’azione fisica, non per ascoltare della musica. 


C’è la fotografia oltre all’azione, certo, ma è una fotografia diversa, è documentazione. La cosa che trovo interessante è che durante le performance mi “clono”: affido la macchina fotografica a un’altra persona; io comunico con la fotografia anche attraverso persone che mi fotografano e fanno il mio lavoro. Così io divento anche parte del pubblico… È interessante, perché un fotografo non abbandona mai la macchina, invece io scatto attraverso altre persone ma il lavoro è mio, lo scatto non appartiene a loro. 

Mi rendo conto che alla fine, la fotografia, la utilizzo solo durante le performance. Cerco di nascondermi sempre di più, come se non volessi far vedere l’immagine che produco ma riesco a mostrarla attraverso la restituzione editoriale della performance – il mio è anche un lavoro editoriale – con una ventina di foto, video e magari anche la registrazione dell’audio quando c’è. Anche da voi, per esempio, ho coinvolto Michele Lombardelli con cui sto lavorando, che introdurrà dei suoni o campionerà i miei; volevo impreziosire questa performance di “musica andalfabeta” con dei suoni - sono degli elementi che mi danno sicurezza.

[Mi piace che dici che i suoni ti danno sicurezza.Quanto è importante per te la musica?]
È importantissima. Ho amato la musica fin da ragazzino, avrei anche voluto suonare ma non ho mai avuto il coraggio di salire su un palco – fino a 47 anni. La musica per me è fondamentale ma non deve essere una gabbia… Mi spiego: quando vai a un concerto così come quando fai una performance, hai i tuoi riferimenti che ti influenzano. Nella performance ho eliminato tutti i miei riferimenti, perché voglio un suono “analfabeta”; un suono senza controllo – senza nessun riferimento. Che non significa “improvvisato”, è diverso: è un suono che nasce dall’errore.

Tutto il mio lavoro viene non dallo studio ma da un incidente. Proprio perché nel mio percorso ho capito che tutto quello che faccio è basato sull’imperfezione; ho perfezionato l’imperfezione. Ed è così nelle fotografie, nelle performance, nelle cornici… Che non vuol dire fare un lavoro fatto male apposta: per me questa imperfezione significa lasciarmi andare così come sono – essere me stesso. Ogni volta che vedevo qualcosa che mi colpiva mi lasciavo influenzare, provavo a essere quello che non sono e non funzionava. Adesso mi sento libero: mi baso su di me e sulla mia imperfezione, anche fisica (come cammino, come suono…) e la esalto al massimo. Devo solo stare lì, senza spaventarmi, sicuro di quello che non so fare – speriamo che non ci sia un dottore qua dentro, ecco… Ah ah ah!

[Perchè dici “di non spaventarmi”. C’è un aspetto che ti spaventa?]
No… A questo punto non c’è più niente che mi spaventa. Il pubblico può spaventarsi se si aspetta qualcosa. Io mi sono lasciato andare e ho lavorato su quello che sono veramente: una persona imperfetta in tutto quello che faccio, anche nella fotografia stessa – le mie foto non sono belle, sono coerenti.

[Cos’è che ti colpisce delle persone che fotografi durante le tue performance?]

L’attenzione, la cosa più bella delle foto delle performance è quando la gente ti guarda, ti oltrepassa. Uno sguardo che ti prende ed entra dentro di te. Questa cosa è bellissima. È “A me gli occhi”. Anche per questo non voglio che ci siano cellulari, creano una distrazione e diventa una documentazione, distolgono... Voglio l’attenzione dalle persone che stanno lavorando con me. Assorte, spaventate, concentrate su quello che sta succedendo.

[Cosa chiedi al pubblico con il tuo lavoro?]

Chiedo attenzione, senza aspettative. Chiedo che le persone siano loro stesse, ma non sempre succede e questa è l’imprevedibilità delle azioni. Anzi, io spero sempre che accada qualcosa di imprevedibile. Non sopporto le situazioni in cui il pubblico è passivo, seduto, non riuscirei mai… Mi piace che io e il pubblico siamo sullo stesso piano. La vera performance è la reazione nel pubblico, quello che poi vedo nelle foto: questa per me è l’azione perché le persone sono in una posizione che io ho creato.

[Come immagini il tuo lavoro in futuro?]
Il mio lavoro cambia in base a come sono io in quel momento. È un po’ come documentare la mia vita. 

[Non esiste una separazione tra te, come individuo, con le tue caratteristiche, e il tuo lavoro.]
No, sono me stesso, anzi, lo sono sempre di più. Non c’è Jacopo Benassi che fa le foto o che fa le performance; è un tutt’uno. Sono un’artista e una persona che ha esaltato la sua imperfezione. Non correggo i miei errori: io sono un grande errore, uno spettacolare errore.

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