ALMARE Ph © Silvia Mangosio e Luca Vianello

Dalle caverne preistoriche alle sale da concerto, dalle radio familiari ai festival globali e fino agli spazi virtuali, il desiderio umano di condividere il suono, nelle sue molteplici forme, accompagna l’umanità. Da sempre.

Un fenomeno, il suono, e allo stesso tempo un punto di vista per attraversare pratiche e contesti differenti, per cogliere desideri e mutamenti culturali e sociali. In questo angolo di visuale risiede ALMARE, organizzazione di base a Torino con un focus di ricerca dedicato alle pratiche del contemporaneo che utilizzano il suono, appunto, come mezzo espressivo. 

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Giulia Mengozzi e Amos Cappuccio per farci raccontare che effetto fa guardare il mondo da questa prospettiva.

[Partiamo dalle basi: chi è ALMARE e in quale ambito si muove?]

Amos: ALMARE nasce nel 2017 con l’idea di far incontrare il mondo dell’arte contemporanea con quello della musica. Avevamo riconosciuto in questa trasversalità un campo d’azione a cavallo dei due ambiti, che nello specifico riguardava gli strumenti della curatela.

Giulia: Negli anni, l’intento curatoriale ha preso anche altre forme, come nel caso di “Life Chronicles of Dorothea ïesj S.P.U.”, curato da Radio Papesse e supportato da Italian Council. Questo è un caso piuttosto peculiare, un lavoro autoriale che nasce da una sorta di frustrazione nei confronti dell’impossibilità di riuscire a portare avanti una ricerca teorica con tutti i crismi del caso. L’ambito di ricerca era così ampio che alla fine abbiamo pensato di creare una fiction.

Talk con ALMARE e Radio Papesse, finissage HOPE, MUSEION Bolzano, 2024 Ph. © Rosario Multari

[Un progetto che sfugge alle tassonomie, alle etichette che, come dice Giulia “sono necessarie per comunicare con l’esterno, assolvono alla necessità di chiarezza” ma non bastano. Non a caso, mi fa notare, si definiscono un’organizzazione, un termine che apre la strada all’interpretazione assumendo significati diversi a seconda del contesto.]

Amos: Quello che ci contraddistingue è proprio lo stare a metà, tra le cose.

[A proposito di classificazioni, qual è l’approccio al suono – “alle pratiche del contemporaneo che utilizzano il suono come mezzo espressivo” – che contraddistingue ALMARE?]

Amos: Il suono non è una categoria, per così dire (come potrebbero esserlo la musica o la danza, per provare a semplificare); il suono è un fenomeno. 
Occuparsi di un fenomeno fa sì che le possibilità espressive, e di movimento tra i diversi formati, siano molto ampie. Possono comprendere un concerto, per esempio, ma anche il suono nel cinema o riflessioni sulla costruzione dell’immaginario collettivo relativo al suono, arrivando al soundscape delle città e quindi al modo in cui le viviamo.
Quello che tiene viva questa ricerca, in sostanza, il motivo per cui  continuiamo a interessarci al suono è proprio la pluralità dei punti di osservazione, che ci permette di attraversare discipline diverse - artistiche, ma non necessariamente. 

ALMARE ph © Silvia Mangosio e Luca Vianello

E poi c’è un altro aspetto, anzi due, molto personali. Il primo: il suono è quella cosa che ci concede di stare insieme ad altre decine o centinaia di persone in silenzio, senza parlare, ascoltando. Il che non è affatto banale. Poi, c’è l’aspetto che riguarda il modo in cui il suono si sviluppa nel tempo: mi affascina la costruzione nel tempo di oggetti astratti, il modo in cui vengono costruiti e organizzati. 

[Cosa vi aggancia del lavoro di un artista: cos’è che guida le vostre scelte?]

Amos: Non c’è uno strumento formalizzato, ma abbiamo delle linee di ricerca. Una bussola che è dettata dal contesto, all’interno del quale ciò che ci attiva è la qualità artistica - quanto quella cosa ci colpisce quando la studiamo e ci entriamo. E l’idea stessa di “qualità artistica” varia sempre a seconda del progetto ma in generale è qualcosa che riguarda una sorta di “completezza” formale e di contenuto.

Per esempio, parlando di “Daytime Viewing”, ci ha mossi il desiderio di portare a
Sound Quests” qualcosa di dimenticato - e forse neanche all’epoca del tutto compreso. 

Giulia: È un’opera significativa perché il problema che affronta – la condizione della donna – non è ancora risolto, e ne parla in maniera trasversale.
Amos: Lo fa attraverso le canzoni. Il fatto di riuscire a farlo in questa forma è qualcosa di abbastanza unico.

ALMARE ph © Silvia Mangosio

Credo che nel tempo abbiamo sviluppato un’idea di completezza di intenti che per noi significa essere allo stesso tempo chiari nei contenuti, e riuscire a farlo in modo insolito - personale. Qualcosa di poco sentito e poco visto. In questo senso un lavoro è compiuto. Più andiamo avanti, più ci rendiamo conto anche che ci piace una modalità di esposizione del lavoro “generosa”: quei lavori che, pur parlando di prodotti culturali di nicchia, interagiscono con il pubblico su diversi livelli. Per esempio “Daytime Viewing” lo puoi anche ascoltare senza saperne nulla ma riesce comunque a comunicare – e questo è permesso dal fatto che segue determinati canoni, quelli del musical, e non ha paura di seguirli – oppure puoi andare a fondo e esplorare concetti come quello di sonnambulismo cognitivo di cui parla David Rosenboom. Due estremi.

[L'ascolto collettivo è sempre esistito, ha radici profonde nell’esistenza dell’umanità e con essa si è evoluto adattandosi ai cambiamenti culturali e tecnologici. In questo momento cosa state osservando? Come sta cambiando il modo in cui le persone si relazionano all’ascolto e in particolare al suono?]

Giulia: Ricordo quando, durante il lockdown, avevamo appena prodotto la versione pilot di “Life Chronicles” e il lavoro sembrava comunicare con una serie di fenomeni che si stavano verificando in quel momento… La prima cosa che mi viene in mente è la bolla di Clubhouse, che poi è finita com’è finita, e poi l’ormai consolidato estendersi del mercato del podcasting. Pur non essendo un podcast, Life Chronicles è pur sempre fondato sulla narrazione sonora, per cui ci venne chiesto, a proposito di narrazione orale, di scrivere un articolo a riguardo: “Clubhouse, i podcast e l’irresistibile ascesa della nuova oralità digitale”. Certo, con il senno del poi mi sembra tutto da riscrivere, ma credo che ci sia qualcosa che tutt’oggi fa ancora parte del nostro approccio.

Credo che si possano osservare diversi interessanti segnali di cambiamento: per esempio, molti grandi festival musicali si stanno dotando di sezioni del programma non prettamente musicali. La mia sensazione è che le persone stiano cominciando ad aprirsi alla possibilità di un ascolto condiviso diverso. Per dirla con una battuta: stare zitte per un’ora ascoltando qualcosa che non sia per forza un concerto.

ALMARE ph ©  Stefano Fiorina

[Ed è qualcosa di antico.]

Giulia: Esatto. Se fosse qui con noi la nostra amica Ilaria Gadenz, sono abbastanza sicura che menzionerebbe il fatto che le origini della radio riguardavano la  collettività, quando di radio ce n’era solo una per famiglia e ci si trovava lì attorno ad ascoltare. 

Una cosa che di recente mi ha colpito, per esempio, viaggiando un po’ più tra mainstream e argomenti più vicini a noi… alla cerimonia degli Oscar Daniel Blumberg, il compositore che ha vinto il premio per la miglior colonna sonora per “The Brutalist”, nei ringraziamenti ha menzionato il Café Oto, un locale storico di Londra dove quotidianamente passano tutti, dai musicisti più affermati a quelli emergenti. Se ti occupi di musica sperimentale, nel mondo, ci sono ottime possibilità che a un certo punto passerai per il programma del Café Oto di Dalston o che ci andrai ad ascoltare qualcosa. Ascoltando questo ringraziamento ho pensato a quanto è importante la presenza di luoghi dedicati all’ascolto collettivo, che possono avere un’influenza fortissima sulle pratiche di produzione - fino a che un giorno, all’improvviso, te li ritrovi agli Oscar. E questo ci dice come il confine della bolla a volte sia molto più poroso di quanto immaginiamo. 



Oggi il nucleo di ALMARE è composto da Giulia Mengozzi, Amos Cappuccio e Mattia Capelletti. I loro progetti sono su almare.xyz.

Curated by Invisible°Show

[What led you to create this duo?]

Arnaud: The name A_R_C_C comes from combining our names: A_R from me and c_c from Edouard, who actually performs under that moniker. I don’t use A_R as a solo name, but it felt like a natural combination. Regarding the project’s origins, we started by merging our solo setups, using the same equipment we had separately. At first, it was a very maximalist approach - lots of gear, a big table filled with equipment. Over time, we decided to refine our sound, focusing on a specific set of elements. For the past year and a half, we’ve been working with lights, which has shaped our performances into something unique compared to our other projects.

Édouard: For me, it all started when I saw Arnaud’s solo performance and really loved it. Not long after, we met, and I quickly asked if he would be interested in playing together. We both enjoyed it, and that’s how the project started—very simply and spontaneously.

[Can you describe the process behind choosing the instruments you use for A_R_C_C ? Where do these objects come from, and was there a particular method in selecting them?]

Édouard: The process involved a lot of trial and error, experimenting with different materials and sounds. Over time, we found that lights could produce interesting sonic results. At first, we used random lights we found in stores, experimenting to see what sounds they could make and how they interacted with our setup. Eventually, we collaborated with a synth builder, who helped us develop a dedicated light-based instrument—a kind of modulated light synthesizer designed specifically for our project.

Arnaud: During the COVID-19 pandemic, we were invited to play in Germany, and that period made us reconsider our approach. We spent time exploring new directions, particularly focusing on the performative aspects of electronic music - not just turning knobs, but considering the visual and theatrical elements.
For example, during that period, we requested the longest table possible – two or three meters long – and placed it close to the audience. This setup forced the audience to choose whom to watch, as they couldn’t see both of us at the same time. That’s when lights became an obvious focus for us. The more we explored performative elements, the more we saw that light itself could be the core of our work.

[Your 2019 album Consensus & Compromis includes audience voices. How do you incorporate audience interaction into your work?]

Arnaud: We consider ourselves live musicians. We don’t just play electronic music; we actively engage with the audience. We often perform in the middle of the room, as close to the audience as possible, making sure they don’t just hear the music but also see the interactions and gestures that shape the performance.

Édouard: We’re definitely more focused on live performance than studio recordings. Improvisation is a key part of our process, and for both of us, playing live feels much more natural than composing in a studio. Even our tapes are collages of live recordings. Most of the recordings we have, even unreleased ones, come from live performances.

[You play in various venues, from clubs and punk spaces to more artsy performance places. Is there an ideal setting for A_R_C_C, or do you enjoy the diversity?]

Édouard: There’s no perfect venue for us. As long as the sound system is good, what matters most is the people and the atmosphere. Each performance is shaped by its setting, and that’s part of what keeps the project exciting.

Arnaud: That’s what makes touring interesting. Some venues we know well, others are completely new to us, so each night feels different. It prevents the performances from becoming repetitive. Improvisation plays a big role, and adapting to each space keeps our live act fresh.



>> ENGLISH <<

A cura di Invisible°Show

[Cosa vi ha portato a creare questo duo?]

Arnaud: Il nome A_R_C_C nasce dalla combinazione dei nostri nomi: A_R da me e c_c da Edouard, che si esibisce con questo pseudonimo. Io non uso A_R come nome solista, ma ci è sembrata una combinazione naturale. Per quanto riguarda le origini del progetto, abbiamo iniziato unendo i nostri setup individuali, utilizzando gli stessi strumenti che già avevamo separatamente. All’inizio era un approccio molto massimalista - tantissima attrezzatura, un grande tavolo pieno di dispositivi. Con il tempo abbiamo deciso di affinare il nostro suono, concentrandoci su un set specifico di elementi. Da un anno e mezzo lavoriamo con le luci, il che ha reso le nostre performance uniche rispetto ai nostri altri progetti.

Édouard: Per me tutto è iniziato quando ho visto un’esibizione solista di Arnaud e l’ho trovata fantastica. Poco dopo ci siamo conosciuti e gli ho subito chiesto se fosse interessato a suonare insieme. Entrambi ci siamo divertiti molto, e così è nato il progetto—molto semplicemente e spontaneamente.

[Potete descrivere il processo di scelta degli strumenti che usate per A_R_C_C? Da dove provengono questi oggetti e avete seguito un metodo particolare nella loro selezione?]

Édouard: Il processo ha richiesto molta sperimentazione con materiali e suoni diversi. Con il tempo abbiamo scoperto che le luci potevano produrre risultati sonori interessanti. All’inizio utilizzavamo luci casuali trovate nei negozi, provando a capire che suoni potessero generare e come interagissero con il nostro setup. In seguito abbiamo collaborato con un costruttore di sintetizzatori, che ci ha aiutati a sviluppare uno strumento basato sulla luce: una sorta di sintetizzatore modulato dalla luce, progettato appositamente per il nostro progetto.

Arnaud: Durante la pandemia di COVID-19 siamo stati invitati a suonare in Germania, e quel periodo ci ha fatto ripensare al nostro approccio. Abbiamo esplorato nuove direzioni, concentrandoci in particolare sugli aspetti performativi della musica elettronica - non solo girare manopole, ma considerare anche gli elementi visivi e teatrali.

Per esempio, in quel periodo chiedevamo il tavolo più lungo possibile – due o tre metri – e lo posizionavamo vicino al pubblico. Questo costringeva gli spettatori a scegliere chi guardare, perché non potevano vederci entrambi contemporaneamente. È stato allora che le luci sono diventate per noi un elemento centrale. Più esploravamo la dimensione performativa, più ci rendevamo conto che la luce poteva essere il fulcro del nostro lavoro.

[Il vostro album del 2019, Consensus & Compromis, include voci del pubblico. In che modo l’interazione con il pubblico entra nel vostro lavoro?]

Arnaud: Ci consideriamo musicisti dal vivo. Non ci limitiamo a suonare musica elettronica, ma interagiamo attivamente con il pubblico. Spesso ci esibiamo al centro della stanza, il più vicino possibile agli spettatori, in modo che non solo ascoltino la musica, ma vedano anche i gesti e le interazioni che danno forma alla performance.

Édouard: Ci interessa molto di più la dimensione live rispetto alle registrazioni in studio. L’improvvisazione è una parte fondamentale del nostro processo, e per entrambi suonare dal vivo è molto più naturale che comporre in studio. Anche le nostre cassette sono collage di registrazioni live. La maggior parte delle nostre registrazioni, comprese quelle inedite, proviene da performance dal vivo.

[Suonate in luoghi molto diversi, dai club agli spazi punk fino ai contesti artistici più istituzionali. Esiste una location ideale per A_R_C_C o apprezzate la varietà?]

Édouard: Non esiste un luogo perfetto per noi. Finché il sistema audio è buono, ciò che conta di più sono le persone e l’atmosfera. Ogni performance è influenzata dal contesto, ed è questo che rende il progetto sempre stimolante.

Arnaud: È quello che rende il tour interessante. Alcuni posti li conosciamo bene, altri sono completamente nuovi, quindi ogni serata è diversa. Questo impedisce che le performance diventino ripetitive. L’improvvisazione gioca un ruolo importante, e adattarsi a ogni spazio mantiene il nostro live sempre fresco.

>> ENGLISH <<

[Cosa ti ha portato a scegliere la performance come mezzo di espressione piuttosto che un’altra forma d’arte?]

Ho studiato Belle Arti in un’accademia tradizionale, dove l’approccio era per lo più orientato al padroneggiare le diverse tecniche, cosa che non mi interessava particolarmente. Così ho iniziato a esplorare la performance art e tutti i linguaggi che coinvolgevano il corpo, inclusa la fotografia che ho sperimentato attraverso gli autoritratti, finché la performatività implicita di quel mezzo ha preso il sopravvento. Da lì in poi, la mia attenzione si è spostata sempre più verso un mix di azione e immagine, fino a diventare la forma espressiva che prediligo, ma non l'unica.

Un altro aspetto è legato alla praticità della performance. Non ho mai avuto uno studio fino a questo mese! La performance mi ha permesso di sviluppare idee anche solo restando nella mia camera. All'inizio, infatti, il mio approccio era molto minimale in termini di produzione: azioni con uno o due oggetti facilmente reperibili, senza luci, suoni o allestimenti complessi.

Acción con Monedas I. performance 3h, Acción!MAD Festival, Matadero Madrid 2016

[Che ruolo ha per te il pubblico?]

I miei primi lavori erano performance di lunga durata, spesso presentate all’interno di contesti in cui contemporaneamente succedevano anche altre cose. Il che creava una dinamica in cui il pubblico poteva entrare in relazione con il mio lavoro solo a tratti.

Adesso che la mia pratica è evoluta verso una forma più narrativa, chiedo l’attenzione del pubblico all'interno di un preciso arco di tempo. Nutro un grande rispetto per il pubblico: considero il mio lavoro come un’offerta, qualcosa che dono a loro. Può essere emozionale, contemplativo, divertente o stimolante. Alla fine, è sempre il pubblico a decidere.

[Nel tuo lavoro esplori temi di identità da una prospettiva sociale e culturale, sempre attraverso una lente personale. Puoi condividere il tuo pensiero e l’urgenza che ti spinge ad affrontare questi temi attraverso l’arte?]

Sono sempre stato interessato ai temi dell'identità, società, cultura e politica. All’inizio della mia carriera ero ispirato dal contesto in cui vivevo, in particolare dalla crisi economica del 2008 in Spagna. Durante quel periodo, il mio lavoro era concettualmente esplicito, rispondendo direttamente alla situazione socioeconomica, con poca enfasi sugli elementi personali.

Negli ultimi 5-6 anni, ho affrontato temi simili attraverso una lente più personale, intrecciando argomenti come classe, politica e giustizia sociale con esperienze personali di amore, appartenenza e cura.

Per me, affrontare questi temi attraverso l'arte è un modo per rispondere e riflettere sul contesto politico e sociale attuale e su come questo sia connesso con le mie sfide personali.

Deepfaked Ocaña Wishing Me Goodnight, 2021. A project of Lucía Vives and Eloy Cruz del Prado for Rietveld UnCut. Graphics by Tomás Queiroz, mastering by Maja Chiara Faber.

Deepfaked Ocaña Wishing Me Goodnight

rietvelduncut.rietveldacademie.nl

[Secondo te, qual è il ruolo dell’artista nella società di oggi? Qual è, in sostanza, lo scopo dell’arte oggi?]

Ci sarebbero molte risposte... Artiste e artisti svolgono diversi ruoli con intenti e scopi differenti.

Per me, l’arte e la cultura hanno la capacità di unire le persone, e questo è un grande potere. È anche il motivo per cui arte e cultura vengono spesso represse quando si cerca di imporre una narrazione dominante.

[Qual è il tuo rapporto con il mondo/sistema dell’arte?]

Penso che esistano molti mondi/sistemi dell'arte. Dalle scuole d'arte, alle reti delle residenze artistiche fino alle scene artistiche locali... questi sono i mondi con cui ho un buon rapporto o che trovo stimolanti. Ho invece un rapporto più complicato con le fiere, il mercato dell'arte e la questione del valore.

Non vivo (ancora?) della mia pratica, il che influisce sul mio processo creativo, perché trovare un modo per sostenermi economicamente è essenziale. Ciò mi ha indotto a desiderare di avere accesso a quel sistema istituzionale dell’arte, al mercato e al mondo accademico, non solo per una stabilità finanziaria ma anche per quell'idea di validazione che lo identifica. Un’ambizione che in qualche modo triggera le mie origini di ragazzo della working-class con aspirazioni.

In sintesi, è un rapporto complicato 🙂

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[Come immagini – o come vorresti che fosse – il sistema dell’arte del futuro?]

Oggi il futuro sembra incredibilmente incerto. Idealmente immagino un mondo dell’arte che non censuri chi si oppone al genocidio e all’imperialismo. Mi piacerebbe vedere un sistema in cui il valore primario delle opere non sia il prezzo, ma la capacità di ispirare, provocare pensieri, emozionare e resistere alle forze oppressive

[Quali artistɜ del passato o del presente, provenienti da diversi ambiti, hanno influenzato o continuano a influenzare il tuo lavoro?]

Sono moltɜ lɜ artistɜ che mi hanno ispirato e che probabilmente hanno influenzato il mio lavoro in modi diversi. Quellɜ con cui sento una maggiore connessione hanno in comune l’intensità fisica delle loro opere, la monumentalità in alcuni casi e la profondità narrativa o tematica.

Tra questɜ ci sono artistɜ visivɜ, musicistɜ, drag queen e scrittorɜ. Per esempio Félix González-Torres, Matthew Barney, Francesca Woodman, Jean Genet e Arca.

[Ti va di parlarmi della tua serie di lavori “Good Job, Good Boy” e, nello specifico, della performance che presenterai al Performatorio? Come è nata e perché?]

Con “Good Job, Good Boy I”, ho iniziato a riflettere sul concetto di lavoro, una tematica che avevo già affrontato durante gli studi, ma qui si intreccia con i temi dell’amore, della sessualità e del genere.
Dopo la laurea, il lavoro e la carriera sono diventati un argomento importante e anche pesante per me. La mia opera precedente, “Hundred Seconds Longer and It's Over […]”, indagava il ruolo della resistenza nello sviluppo dell’amore, della sessualità e della cura.

Volevo scoprire come il lavoro s’intrecciasse al nostro senso di appartenenza o di validazione, e che cosa avesse a che fare con l'amore o l'affetto.

C’erano due elementi che volevo utilizzare, non necessariamente insieme: il filmato di mio nonno che lavorava nei campi e le castañuelas, lo strumento che suonavo quando facevo parte del gruppo di danze folkloristiche a Cenicientos. Ho iniziato a esplorare come combinare questi elementi con il movimento e il testo. Alla fine, ho trovato una chiave narrativa nella clip che ho selezionato dal documentario, che presenta due personaggi: mio nonno e il mulo che appare nel video della performance. Infine, ho messo in relazione la loro storia con la mia, attraverso il lavoro, a come questo sia uno strumento di validazione che tutti e tre condividiamo e utilizziamo.

From Dawn to Dusk, video

“Good Job, Good Boy II” (sketches I-VI) rappresentano le prime manifestazioni formali di questa serie e sono ancora in progress. Tuttavia, “Good Job, Good Boy II* è il primo pezzo completamente sviluppato.
Sto anche sperimentano altre forme che questo lavoro o ricerca può assumere, con un approccio materiale come disegni, sculture o installazioni. Arriverà presto.

(Cover photo © Carmen Gray)

[What led you to choose performance as your medium of expression rather than another form of art?]

I studied a BA in Fine Arts at a traditional academic university. The approach to art there was very much about mastering different techniques, which I wasn’t particularly interested in. So, I started researching performance art and exploring mediums involving the body, including photography. I delved into photography through self-portraits, and eventually, the performativity inherent in that medium took over. I then shifted my focus to actions and images, which gradually became my primary – though not exclusive – medium.

Another factor was the practicality of the practice. I never had a studio until this very month! Performance became a medium that allowed me to develop ideas within my room. My approach was very minimal in terms of production, focusing on actions with one or two accessible objects, without lights, sound, or complex setups.

Acción con Monedas I. performance 3h, Acción!MAD Festival, Matadero Madrid 2016

[What role does the audience play for you?]

In my early works, I focused on long-duration performances, often presented during events where other activities were happening simultaneously. This created a specific dynamic where the audience could engage with the work intermittently.

Now, my practice has evolved towards a more narrative form, where I request the audience’s attention within a specific time frame. In my performance practice, I hold great respect for the audience. I see my work as an offering - something I present to them. It could be emotional, contemplative, entertaining, or thought-provoking. Ultimately, the interpretation is up to the audience.

[In your work, you explore themes of identity from a social and cultural perspective, always through a personal lens. Could you share your thoughts and the urgency that drives you to address these themes through art?]

I’ve always been interested in identity, society, culture, and politics. Earlier in my career, my work was inspired by the context I lived in - specifically the 2008 economic crisis in Spain. During that period, my work was conceptually explicit, directly responding to the socio-economic situation, with little emphasis on personal elements.

In the past 5–6 years, I’ve approached similar themes through a more personal lens, addressing topics like class, politics, and social justice intertwined with personal experiences of love, belonging, and care.

For me, addressing these themes in my practice is a way to respond to and reflect on the current political and social context and how it intersects with my own personal challenges.

Deepfaked Ocaña Wishing Me Goodnight, 2021. A project of Lucía Vives and Eloy Cruz del Prado for Rietveld UnCut. Graphics by Tomás Queiroz, mastering by Maja Chiara Faber.

Deepfaked Ocaña Wishing Me Goodnight

rietvelduncut.rietveldacademie.nl

[In your opinion, what is the role of the artist in society today? What is the purpose of art today?]

The role of the artist in society today has multiple answers. Artists fulfill many roles with diverse intentions and purposes.

For me, art and culture have the capacity to bring people together, and that is immensely powerful. It’s also why art and culture are often repressed when a specific narrative seeks to dominate.

[What is your relationship with the art world/system?]

I believe there are many art worlds and systems. I have a positive and stimulating relationship with aspects like art schools, residency networks, and local art scenes. However, when it comes to art fairs, the market, and questions of value, my relationship is more complicated.

I don’t (yet?) live off my practice, which impacts my creative process since finding a way to sustain myself financially is essential. This has led to a desire to enter spheres like the art market and academia - not only for financial stability but also for the validation they offer. This ambition ties back to my roots as an aspirational working-class kid.

In resume, It’s a complicated relationship 🙂

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[How do you envision – or how would you like – the art system of the future to be?]

The future feels incredibly uncertain these days... I would like an art system that doesn’t censor artists who speak out against genocide and imperialism. I’d like to see a system where the primary value of art isn’t its price but its capacity to inspire, provoke thought, move people, and resist oppressive forces.

[Which past or present artists, from various fields, have influenced or continue to influence your work?]

I’ve been inspired by many artists, and they’ve likely influenced my work in different ways. The artists I feel most connected to often share traits such as the physical intensity of their pieces, monumentality in some cases, and narrative or thematic depth. These include visual artists, musicians, drag queens, and writers. Notable names include Félix González-Torres, Matthew Barney, Francesca Woodman, Jean Genet, and Arca.

[Can you tell me about your work series Good Job, Good Boy and, specifically, the performance you’ll be presenting at the Performatorio? How did it come about, and why?]

With "Good Job, Good Boy I", I started reflecting on labor, something I had previously explored during my BA studies, but this time it was intertwined with themes of love, sexuality, and gender. "Good Job, Good Boy II (sketches I-VI) were the first formal manifestations of this series and remain a work in progress. However, "Good Job, Good Boy II" is actually the first fully developed piece in the series.

After graduation, labor and even professional careers became an important and weighty topic for me. My previous work, "Hundred Seconds Longer and It's Over", explored the role of resistance in the development of love, sexuality, and care. I wanted to understand how labor intersects with our sense of belonging or validation, and what role it plays in love or affection.

There were two elements I wanted to incorporate, not necessarily together: footage of my grandfather working in the countryside, and the castañuelas, the folkloric instrument I played when I was part of the folkloric dance group in Cenicientos. I began exploring the possibilities of combining these elements with movement and text.
Eventually, I found a narrative in the clip I selected from the documentary, which presents two characters: my grandfather and the mule that appears in the video. Ultimately, I connect the narrative of these three characters –the grandfather, the mule, and myself – in how labor becomes a shared tool for validation that all three of us use.

From Dawn to Dusk, video

I am also exploring the possible forms this work or research can take, with a material approach such as drawings, sculptures, or installations. More to come soon.

(Cover photo © Carmen Gray)

[Qual è il tuo approccio alla danza?]
“Danza” è una parola complicata, perché presuppone delle dinamiche e una certa idea di corpo e movimento.

Ho avuto una formazione accademica, prima in danza classica e poi contemporanea, che mi stava un po’ stretta. I due turning point che hanno segnato la mia vita e la mia percezione artistica sono arrivati in seguito, prima con una borsa per studiare a New York con Trisha Brown e, successivamente, con l’incontro della danza Butoh di Masaki-Iwana.

La danza per me ha un significato che è già cambiato diverse volte e che forse continuerà a cambiare. Sicuramente oggi posso dire che danza significa saper usare il corpo con consapevolezza, presenza e coscienza. Non soltanto una consapevolezza formale del movimento, ma interiore, che riguarda l’ascolto e l’intenzione del movimento.

Anche alzarsi da una sedia può essere una danza, dipende da come lo fai. Se lo fai con una certa intenzione, allora può diventare danza. E ogni corpo, in potenza, può danzare. Questo è per me la danza oggi.
La tecnica, poi, è un'altra cosa: è uno strumento utile o non utile, a volte limitante. Il corpo, invece, è il motore di ricerca.

Credo molto nella pratica fisica e nella disciplina, perché penso che il corpo vada conosciuto, abitato, vissuto e praticato non soltanto a livello fisico e motorio, anche energetico. In questo senso la tecnica deve essere uno strumento, non una gabbia. Vedi, anche il balletto mi ha dato tanto, più che altro una forma mentis, un’abitudine alla resistenza, alla disciplina e alla precisione ma resta per me uno strumento che ho attraversato. Decostruire quello che ho imparato forse è stata la cosa più difficile, che ancora non so se ho del tutto compiuto.

Corpus Mobile, 2014 - 2015, Federica Dauri, Kiril Bikov, ph © Alwin Poiana 

[Ti faccio una domanda che è anche un po’ una provocazione. E te lo dico perché, mentre tu mi parli di una conoscenza del corpo che passa attraverso l’esercizio e la disciplina, a me viene in mente il controllo, più che il piacere… Come si relaziona il piacere a tutto ciò?]
Domanda interessante. Il piacere lo trovo sul confine, nel limite che mi predispongo… Per esempio, se voglio cercare le sfumature del movimento delle costole, riduco i movimenti delle braccia e delle gambe e mi concentro su questo piccolo-piccolo spazio per esplorare tutte le sue possibilità. Per me questa è una forma di piacere. Però sono consapevole che in questa pratica il piacere e la frustrazione vanno di pari passo, perché la ricerca del micro-dettaglio, di ciò che è nascosto, è complessa. Non può portare immediatamente al piacere, deve passare attraverso una strada più tortuosa.

[Mi hai parlato di consapevolezza e coscienze del corpo e del movimento, come vivi l’invecchiamento?]
È un argomento complicato per me. A mio padre è stata diagnosticata una distrofia muscolare degenerativa, una malattia che trasforma il muscolo e lo fa scomparire piano piano, che ti porta quindi a osservare i suoi risultati più drammatici al di fuori, nella materia corpo.
Convivere con questa diagnosi mi ha portata ad avere una visione completamente nuova sulla precarietà del corpo; ha iniziato a muovermi il desiderio di raccontare la verità di altri corpi, anche fragili, che hanno pesi, forme e gravità diverse. E che invecchiano. Mi sta aiutando anche a fare pace con la mia paura di invecchiare, che odio, che è stata forte ed è ancora forte ma allo stesso tempo sono curiosa di continuare a raccontare il mio corpo che invecchia. Ne ho paura, ma anche ne sono attratta, vedo che cambia e questo mi intriga sempre di più.

[Ti va di parlarmi di “Interno sospeso”? Come si relazione al pubblico?]
Sono molto felice di portare “Interno sospeso” al Performatorio. È un lavoro nuovo, che ho amato e nasce in collaborazione con una compositrice con la quale lavoro da anni, Elisa Batti. “Interno sospeso” è un'evoluzione di un progetto già esistente, legato all’immobilità, in cui ero avvolta in una nuvola di rete metallica. Un materiale sottile che ha una sua durezza ma ha anche un qualcosa di profondamente etereo. Ho iniziato ad appassionarmi a questo contrasto che in qualche modo rappresenta anche una dinamica interiore - un confine. È una scultura che ogni volta si adatta allo spazio così come il mio corpo si adatta ad abitare quei limiti, infilandosi negli spazi possibili.

La rete ha molti significati, anche politici. Mi interessa come l’intelligenza del corpo trovi spazio all’interno del limite, creando nuove strade. Mentre preparavo questo lavoro pensavo all’idea dell’animale, a come trova una forma di resistenza all’interno dello spazio in cui viene costretto, senza superarlo ma trovando il modo per abitarlo.

La composizione musicale contribuisce a creare uno spazio sospeso, una bolla in cui il tempo si dilata e perde la sua connotazione. Il pubblico è invitato ad abbandonarsi, a perdersi in un’immagine senza dover cercare necessariamente un filo logico o una narrazione intellettuale. Il mio auspicio è che le persone si abbandonino a una fruizione emotiva, come possono e per il tempo che possono.

see-through, 2019, Federica Dauri

[Il tempo della contemplazione è qualcosa che stiamo perdendo…]
È una costante dei miei lavori. Penso che il tempo dilatato sia qualcosa di necessario, che stiamo dimenticando e che forse, nel mio piccolo attraverso la performance, cerco di riproporre. Perché è solo così che possiamo riprendere contatto con un modo diverso di stare, meno frenetico, meno legato al fare, al produrre. Un oziare creativo.

[Che è necessario]
Necessario per sentire il corpo.

[Stiamo tornando all’inizio di questa conversazione, quando tu mi dicevi che la tua idea di danza è una ricerca interiore del corpo, che intendi il movimento come un’intenzione deliberata che in potenza riguarda tutte le persone. La frenesia del fare e produrre invece ci allontana dall’intenzione...]
È esattamente quello che intendevo, parlando di danza ma anche, banalmente, della consapevolezza dell’effetto che ha qualsiasi cosa sul nostro corpo; della sua condizione psicofisica. In che modo una notizia che abbiamo ricevuto sosta nel nostro corpo? Quale reazione ci provoca? Dove la sentiamo? In che modo respiriamo?

Quando mi trovo a insegnare parto sempre da un grosso lavoro sul respiro e mi rendo conto quanto sia difficile, per esempio, inspirare, mantenere un’inspirazione lenta, quindi prendersi del tempo per far entrare l’aria nel nostro corpo. Già questo ti fa capire quanto poco tempo ci concediamo per sentire le nostre necessità, corporee ma anche emotive.

Fase orale, 2018, Federica Dauri e Martina Gabrielli, ph © Paolo Sasso

[Prima, parlando di “Interno sospeso” hai toccato il tema del valore simbolico e politico di un’opera. Cosa significa essere un’artista oggi, rispetto al contesto globale che stiamo vivendo?]
È un momento storico difficilissimo: troppe guerre in corso, troppe ingiustizie, troppo orrore. L’umanità sembra soffocare sotto il peso di conflitti senza fine e di violenze che si ripetono, mentre la dignità umana e i diritti fondamentali vengono calpestati ogni giorno. Basta guardare al Medio Oriente: la resistenza del popolo palestinese, schiacciato dal peso di un genocidio che minaccia di annientarlo, eppure capace di trovare ancora la forza di resistere. È un popolo che ha attraversato decenni di conflitto e una crisi umanitaria di proporzioni drammatiche. E allora mi chiedo: cosa possiamo fare noi?

Forse l’unica strada, come artisti ma prima di tutto come esseri umani, è continuare a informarsi e studiare, nutrendoci di una pluralità di fonti per sviluppare una comprensione attiva e critica. Non possiamo accettare il silenzio e l’indifferenza, dobbiamo riflettere profondamente sui diritti umani violati, sulle violenze e sulle ingiustizie, stimolando riflessioni critiche sul ruolo di una comunità internazionale che troppo spesso rimane inerte e in silenzio.

(Ph. © Hanna Schaich)

[Ti va di introdurre Alos? Chi è e com’è nata nel tuo percorso?]
Alos è nata ormai 20 anni fa, dopo gli OvO e le Allun. Venti anni fa per me era “il progetto nuovo”. È nata da un’esigenza, perché mi era capitato di fare una data da sola a Palermo – a differenza di quello che facevo con OvO che è un duo e con Allun che era una formazione aperta – e, al rientro, nel viaggio da sola da Palermo a Milano, mi ero detta che sarebbe stato interessante continuare a sviluppare un’esperienza performativa solista.

Da lì anche il nome, Alos, il contrario di “sola”. Per anni tra l’altro c’è stato un punto di domanda davanti al nome “?Alos”, come a domandarmi “sola?”. Con il tempo è scomparso ma ha avuto un significato importante, è stato un quesito identitario su cosa significa “sola” - perché di fatto poi con Alos hanno sempre collaborato altre persone, ciascuna con la sua professionalità...

[E poi c’è il pubblico; c’è sempre una relazione con il pubblico.]
Esatto. Nelle mie performance il pubblico è sempre stato fondamentale, sin dai primi lavori, che erano una ricerca sui cinque sensi e sul ruolo della donna da un punto di vista sociale e culturale.

In una delle prime performance, per esempio, giravo con una cucina mobile e cucinavo cibo vegano – 20 anni fa non era così comune – che poi condividevo con il pubblico. Mi portavo sul palco spezie, verdure, tofu, pentole, piatti e bicchieri di cristallo, allestivo la mia azione che, anche a livello sonoro, aveva un suo impatto: usavo la voce, le elettroniche, il violino, i microfoni a contatto... Il pubblico ovviamente era parte integrante, partecipava con tutti i sensi perché lo spazio si riempiva anche degli odori del cibo, e poi si mangiava davvero. Oggi i tempi sono cambiati ma allora condividere cibo vegano aveva un altro significato: era una critica e anche un’altra possibilità.

In un’altra performance, invece, cucivo. Era una sorta di musical in cui da sola, con la macchina da cucire, cucivo un pupazzo di pezza.
Volevo portare l’attenzione sia sul lavoro femminile sia sullo sfruttamento legato all’immigrazione. Ai tempi vivevo a Milano, era il periodo in cui la città era piena di laboratori colmi di immigrate cinesi sfruttatissime che lavoravano per l’industria della moda (cosa che non è cambiata affatto): mi interessava l’esperienza di chi lascia il proprio paese per trovare una situazione migliore e poi si scontra con un lavoro sottopagato e la solitudine. 

Il vero switch, il passaggio verso il rituale e un interesse verso la spiritualità – il sesto senso – è arrivato dopo “Era”, che per me era un progetto sonoro, un concerto, ma per molto tempo mi sono sentita dire di tutto: da “Bella la performance. Non è musica, vero?” a “Oh, com’è catartico!” fino a “Suoni chitarra e voce, quindi fai folk?”

"Era", 2012

Facevo doom, facevo metal. Per me era chiaro ma le persone – spesso uomini, molto spesso giornalisti – ci vedevano solo una serie di stereotipi che non avevano nulla a che fare con il mio lavoro. A un certo punto ho deciso che era un problema loro: erano limitati. Per me era chiaro quello che stavo facendo.

[Se sei una donna non puoi fare doom metal, sia mai!]

Se urli sei pazza e uscita da un manicomio… Ricordo che in una recensione per “Matrice”, album in cui dichiaravo di essere femminista, queer e anarchica – dichiarazioni che erano scritte nero su bianco nel comunicato stampa – qualcuno aveva scritto “Ci sta prendendo in giro, è pazza o cosa?”. Non puoi usare le parole in questo modo.

Facevo dischi già da 15 anni e non avevo bisogno di recensioni. Da lì in avanti ho iniziato a scegliere altre strade, anche più complicate se consideri anche solo la ricerca di spazi non convenzionali, ibridi, ma più adatti ad accogliere il mio lavoro: io non sono solo una musicista e adesso non sento neanche di affermare che faccio “performance”, faccio “riti”.

"Matrice", 2015

[Che cos’è per te il rito oggi?]
Se consideriamo il nostro quotidiano, esistono piccoli riti personali che sono importanti, perché ci permettono di focalizzarci e prenderci cura di noi stessi. Poi ci sono i riti collettivi, quelli che mi interessano, in cui sei tu con le altre persone in una dimensione altra, sospesa, nella quale avviene uno scambio - una circolarità di energie che dall’esterno si muovono verso l’interno e viceversa. Nell’esperienza contemporanea, anche andare a ballare o a un concerto può essere un rito collettivo.

Parlare di riti oggi è complesso ed è importante considerare il rito da un punto di vista storico e antropologico per non cadere nell’appropriazione culturale. Nei miei lavori ogni scelta è misurata affinché il rituale abbia una sua identità, nel rispetto del passato e delle altre culture. Un rito contemporaneo nel quale mi apro a una dimensione spaziale e temporale.

Credo fermamente nel fatto che tutto sia connesso, permeabile e attraversabile, a livello spaziale, temporale e anche verso una dimensione spirituale. E parlando con persone esperte di spiritualità mi sono spesso interrogata sul fatto che qualcuno di noi possa avere la capacità di fare da canale verso altre dimensioni invisibili.

"The Chaos Awakening", 2018

[Ti è mai capitato?]
Condivido l’esperienza che ho vissuto… Ero in Liguria con “The Chaos Awakening”, in un piccolo festival immerso nella natura - oltretutto sotto Triora, che è un posto non molto conosciuto ma con una storia incredibile: un luogo non lontano da Sanremo dove in passato, nel XVI secondo, alcune donne vennero processate per stregoneria, accusate di aver causato una carestia. In quell’occasione per la prima volta ho sentito chiaramente che ero connessa con quello che stavo facendo, al punto da accorgermi che stavo andando in trance.

Il giorno dopo raggiungo l’organizzatore che era con la sua famiglia, la mamma e la zia gli davano una mano e, per caso, la sera prima c’era anche la nonna, una signora anziana che ovviamente non era interessata alla mia musica e non la conosceva, ma era una donna molto sensibile, con un vissuto doloroso legato a quel luogo… La incontro e mi dice che la sera prima, mentre suonavo, attorno a me aveva visto molte persone tra cui il figlio morto. Al momento l’avevo presa con leggerezza, ma di lì a poco ho dovuto affrontare due gravi problemi di salute - un tumore al seno e un’encefalite che ha messo a rischio la mia vita. “Calma”, mi dico. 

Da sempre, il suono per me è uno stimolo alla connessione, lo è per Alos come lo è con gli OvO. La musica, un certo tipo di musica, ha la capacità di toccare delle corde, di aprire i canali. Nel rituale questo lo dichiaro, può accadere. Per questo mi occupo anche dello spazio in cui si svolge, lo “pulisco” da energie che potrebbero interferire e invito il pubblico a vivere il rito con una determinata propensione perché l’idea, lo scopo, è che le persone che partecipano si colleghino tra loro con un filo invisibile.

"Embrace The Darkness", 2023

[Il titolo “Embrace The Darkness” mi piace molto e mi ricorda come tutti abbiamo una zona d’ombra che tendiamo a tenere lontana da noi, perché così ci hanno insegnato a fare, quando invece accoglierla, passarci del tempo e farci due chiacchiere ci aiuterebbe meglio a capire qual è il nostro scopo. Magari il tuo è proprio quello di connettere… Dopo tutto cos'è la performance? Un’esperienza collettiva che funziona se genera un cambiamento, seppur minimo, nelle persone che partecipano.

Parlando di connessione, in “Embrace The Darkness” c’è anche un altro livello, quello con la natura. Che ruolo ha?]
La natura è un gigantesco amplificatore, e anche lei parla. In “Embrace The Darkness” provo a dare voce a quella natura che a Stromboli ho vissuto, che ho assorbito e che ho trasformato a livello creativo, attraverso la voce e il suono. Entrare in contatto con la natura significa connettersi anche con la nostra parte primordiale, animalesca.

Noi conviviamo con la natura ma di solito non è una convivenza armonica, cerchiamo sempre di dominarla, sfruttarla, ma la natura è imprevedibile e selvaggia, non la puoi addomesticare. Ero arrivata a Stromboli, dove è nato “Embrace The Darkness” subito dopo un enorme incendio che aveva arso una parte dell’isola, mettendo la natura in sofferenza e traumatizzando gli abitanti. Un incendio causato dall’uomo durante le riprese di una serie televisiva che avrebbe invece dovuto valorizzare il territorio... Ovunque c’era odore di bruciato, denso, persistente. Se natura e uomo vivono in armonia e rispetto (come per esempio nella parte dell’isola in cui si trovano gli insediamenti più antichi, che non avevano subito danni), si crea un equilibrio, diversamente si crea distruzione.

Nel 2021, molto prima che Performatorio aprisse le sue porte al pubblico, Eleonora Quadri cominciò a interessarsi alla sua storia all’interno del contesto cittadino. Così nacque “Zero”, il primo progetto dentro l’ex lavatoio di via Nazario Sauro. Un intervento effimero: una carta da parati che riprendendo il pattern del reticolo dei corsi d’acqua sotterranei di Bergamo, ricopriva la parete dell’edificio che sarebbe stata abbattuta con l’inizio dei lavori di ristrutturazione, oltre a una serie di proiezioni verso l’esterno, visibili ai passanti e al vicinato nelle ore serali.

Quello che resta oggi di “Zero” è la sua documentazione e questa conversazione con Eleonora; ciò che ci riporta con forza a quel 2021 è il fatto che “Zero” non era la fine, ma solo l’inizio. 

[Che rapporto hai con la città? Come la vivi?]
Ho cambiato spesso città, mi sono trasferita all’Università, poi ho fatto un anno di Erasmus e uno di tesi in due città diverse, ho studiato fotografia in un’altra ancora e mi è capitato di fermarmi in altre tre per oltre un mese. Forse anche per questo non sento di appartenere a una città in particolare. Amo esplorare le città, passeggiare

Considero Bergamo “la mia città” perché è qui che sono cresciuta, dove ha vissuto la mia famiglia, e forse, paradossalmente, è proprio quella a cui ho dedicato meno esplorazione. Negli anni ho imparato a trasferirmi e ad ambientarmi in contesti diversi ma anche a studiare la storia delle città, a visitarle, a creare delle abitudini, dei luoghi ricorrenti - cosa che a Bergamo non ho fatto o ho fatto solo in parte…

Quando mi trovo in una città nuova mi piace studiarne la storia, capire come si è costruita, leggere nello spazio urbano la trasposizione del suo sistema sociale – un aspetto molto evidente nelle città europee. È un’entità - la città - un organismo con delle costanti che si ripetono – in Europa in maniera molto simile e coerente.

[Quale sensazione hai provato entrando per la prima volta al Performatorio? Che effetto ti ha fatto?]
Uso una parola “strana”: mi ha fatto “tenerezza”. Mi è sembrato qualcosa messo lì, a caso… Mi sono domandata: “Perché hanno costruito un edificio così piccolo e così particolare proprio qui, in mezzo a tutti questi palazzi?” Lo vedi, è un po’ estraneo… L’ho trovato molto curioso, molto interessante.

[Cosa ti ha incuriosita?]
Intanto mi ha colpita il blu del suo pavimento, così come la greca gialla disegnata attorno alle pareti, e la parte della vetrina con tutti quegli strati di carte e muri uno sopra l’altro, mi ha dato l’idea di un luogo che è stato tante cose e ogni volta ha mantenuto delle tracce del suo passato, che ha avuto diverse funzioni e ora non capisci più cosa sia…

Performatorio, 2021


[Nel tuo progetto “Zero” da cosa sei partita? Qual è stata la tua urgenza o l’elemento che ti ha agganciata?]
Il canale, per due motivi in realtà: uno, perché una delle cose che Scande mi aveva detto – o forse glielo avevo chiesto io, non ricordo – era che in passato il Performatorio era stato un lavatoio. E poi c’è questa cosa dei canali nascosti nelle città che mi piace, la trovo interessante su Bergamo perché te ne dimentichi proprio... è un aspetto che ho riscontrato anche a Bologna, dove ho vissuto a lungo: anche qui ci sono molti canali che nel tempo sono stati nascosti. In via Riva di Reno, tutta la zona di via Indipendenza, la parte di viale Oberdan in cui vedi proprio il fiume - esattamente come a Bergamo.
Piano piano le città hanno coperto queste parti acquee che in realtà servivano, sia a livello industriale sia nella vita. Mi è piaciuto il fatto che lui - il Performatorio - fosse sopra il canale, mi ha attirata l’idea di questo posto così piccolo e così decontestualizzato ma posto esattamente sopra a questo elemento, l’acqua, sopra i canali di cui a Bergamo ci si dimentica e così, nemmeno te ne prendi cura [ti dimentichi che sotto di te, anche se no lo vedi, ci potrebbe essere qualcosa]. Forse Borgo Palazzo è la zona in cui il corso dei canali è rimasto più visibile: hanno costruito dove si potevano creare fondamenta, quindi l’acqua ha disegnato la città.

vista dal retro del Performatorio, 2021


[Se la città fosse un organismo vivente, i canali cosa potrebbero essere?]
Le vene, una linfa [ho immaginato i reni].

Partendo dai canali, ho poi pensato alla loro mappa. Mi piaceva il fatto che il Performatorio si collegasse alla città attraverso l’acqua.

Inoltre, voi sareste intervenuti nello spazio, con la ristrutturazione… volevo qualcosa che entrasse in relazione anche con i lavori, così ho pensato che tutto ciò che era rimasto di questo luogo, della sua storia, era attaccato alle sue pareti: lavorare su questo aspetto mi è sembrato quanto di più aderente potessi fare, senza ricorrere a un intervento che andasse a trasformare o interpretare il luogo. Qualcosa che da un lato richiamasse quello che già c’era e che allo stesso tempo potesse avere una sembianza non definiva, come la carta da parati, che si attacca a un elemento già presente nello spazio - le pareti. Mi piaceva inoltre l’idea che questo intervento andasse a evidenziare proprio quegli elementi che con la ristrutturazione sarebbero scomparsi, non so perché… Mi attirava l’idea di compiere un gesto così invasivo, come incollare della tappezzeria, e pensare che poi sarebbe stato distrutto [mi interessa la curiosità di Eleonora, il suo incuriosirsi, andare oltre la tenerezza. Curiosità intesa nella sua accezione etimologica, dal latino cura, intesa come premura. Il curioso altro non è che chi si prende cura di qualcosa e così facendo, la trasforma].

Zero, 2021


[Che effetto ti fa pensare a questa cosa? Immaginare che quello che hai fatto andrà distrutto?]
Mi rimanda a qualcosa di inutile, che già sai che andrà perso ma allo stesso tempo è qualcosa che dà valore, che esiste solo in quel tempo che hai deciso di rendere prezioso. È un po’ come se sottolineasse quelle parti architettoniche che poi andranno distrutte, come a dire “ora ci sono e ad un certo punto non ci saranno più”. Ecco, forse più che inutile è qualcosa che ha a che fare con l’accettare…

Mi piaceva anche l’idea di fare qualcosa per chi quello spazio l’avrebbe letteralmente trasformato - gli operai - e quindi non lo avrebbe neanche vissuto come uno spazio espositivo. Se fai un intervento che resta e viene visto diventa anche un’esposizione, invece, in questo caso è qualcosa che fai per il luogo e basta. Però, sicuramente, vai a disegnare lo spazio, a unificarlo, e poi non so, c’entra anche con il non essere troppo indifferenti: c’è questo spazio così liminare, quello delle pareti, uno spessore che se ne andrà e io intervengo proprio lì, dove verrà distrutto [e a proposito di acqua, in fisica lo “strato liminare” è lo strato fluido aderente alla superficie di un corpo].


[Cosa intendi quando dici “non essere troppo indifferenti”?]
È una cosa minuscola in realtà: porre attenzione a qualcosa che potrebbe tranquillamente passare inosservata [non mi sembra una cosa “minuscola”]. Infondo, si può dare importanza a ogni cosa, ma una volta che lo fai non torni più indietro.

C’è anche un’altra cosa che mi sta venendo in mente adesso, un’idea che mi piace molto: scattare una serie di fotografie a questo progetto prima che comincino i lavori. Con questa sembianza “Zero” non esisterà più e le immagini saranno l’unica sopravvivenza di questo momento.

[Se “Zero” fosse un messaggio, se chiedesse qualcosa alle persone che lo vedono? Cosa chiederebbe?]
Mi piace l’idea che possa dire “renditi conto di dove sei: tu sei qui”. Per quanto ogni luogo possa essere percepito come banale, in realtà lì è dove sei in quel momento. Anche l’idea di immaginarsi in un punto all’interno della rete di canali, di localizzarsi in quella mappa che non è quella delle strade a cui siamo abituati, ma è un’altra mappa, sotterranea. Renditi conto che tu sei proprio in quel punto.

[Se fosse una richiesta ancora più specifica?]
Sii consapevole [leggo “non dare nulla per scontato” e mi commuove]. Il canale ti riporta a tutto: qui probabilmente una volta c’erano dei mulini, luoghi in cui le persone andavano a lavare, tutta quella zona era completamente aperta su Città Alta e il fatto che ci fossero i canali la rendeva sfruttabile. “Non cancellare, non dimenticare”. Possiamo attivare percorsi di memoria partendo davvero da niente – questo è un aspetto che in generale mi interessa, mi piace. Tra l’altro ho fatto vedere la foto del Performatorio ad una delle mie migliori amiche e ho scoperto che era il negozio di sua zia, ci lavorava suo padre [la trovo una bellissima coincidenza], avevano un sacco di commissioni e lui andava ad “attaccare” tappezzerie in Libia [mi meraviglia che la traccia di questo gesto – attaccare, ricoprire, rivestire una parete - si sia manifestato da sé, prima ancora che Eleonora conoscesse la storia di questo luogo]. È strano…

[Cosa ti porti via da questa esperienza?]
Mi è piaciuto fare un lavoro qui, a Bergamo [hai finalmente “esplorato” la tua città], mettermi in un aspetto progettuale, oltre che collaborare con voi. È stato bello dare senso a questo luogo, e mi piace l’idea di poter raccogliere altro materiale, anche sulla storia del quartiere, come punto di partenza per una documentazione. Banalmente anche pulirlo mi è piaciuto: pulire i vetri, svuotarlo, spostare tutto, vederlo un po’ nudo… lo fai un po’ tuo [come in una relazione intima].

Nella mia ricerca mi è capitato di lavorare in luoghi abbandonati, per esempio mi è capitato di fare un lavoro sulle zone terremotate del Centro Italia per il quale avevo fatto questa ricerca sui terremoti antichi, però alla fine i soggetti delle immagini erano sempre spazi in cui non c’erano evidenti tracce di terremoti, c’erano segni di vissuto. Mi interessano in generale i luoghi dimenticati perché è bello riscoprirli, ma è bello anche semplicemente fare un intervento che ti permetta di spostare lo sguardo [“spostare lo sguardo” è qualcosa che mi arriva forte dal lavoro di Eleonora. Verso il basso, verso la rete invisibili di canali per collocare il Performatorio e chiederci di localizzarci, di guardarci attorno].

Zero, 2021


Mettere la mappa sulla carta è stato anche un modo per utilizzare qualcosa di non invasivo: una greca estremamente legata allo spazio, una ragnatela che ricopre tutto all’interno. In fondo è un disegno di come quello spazio si relaziona con tutta la città, che va a rivestire il suo interno, ma che io non scelgo in fondo perché è già lì, non faccio altro che spostarlo. Senza che questa scelta sia una mia decisione arbitraria [Rivolgere lo sguardo, cambiare le coordinate, provare a muoverci in una direzione che non sia sempre quella a cui siamo abituati, cosa succede se cambi i termini di relazione con uno spazio? Se metti la testa fuori dalla caverna?].

Eleonora Quadri è un'artista con base a Bergamo. Ha partecipato a mostre e residenze in diverse istituzioni tra cui Izolyatsia a Kiyv, Hangar a Lisbona, Fondazione Fabbri, Murate Art District di Firenze, l'Istituto Italiano di Cultura a Berlino, MATA di Modena, Palazzo Lucarini a Trevi, Fondazione Carlo Gajani.

“Ho una formazione in storia dell’arte e in fotografia. Mi interessa partire dai luoghi e dalla loro storia, avvicinarmi fino a scoprire un elemento da cui partire per costruire una narrazione. Intreccio fotografia, video, materiale d’archivio e scrittura cercando un equilibrio tra i linguaggi, creando corrispondenze, richiami o contrasti tra gli elementi posti nello spazio, che funzionano come pesi, come aderenze, calchi e nascondigli per le storie da cui parto”.

[Quando si parla di performance si è soliti pensare alla presenza, fisica, del corpo, che spesso coincide con quello dell’artista. Nella tua pratica, invece, la performance si libera in un certo senso da questa “etichetta” e il linguaggio si espande attraverso altri media. Qual è il tuo interesse? Ti va di descrivermi la tua ricerca?]

Il corpo è al centro del mio percorso, della mia pratica e della mia ricerca… più che la performance. Io non sono un performer e non uso strettamente il medium della performance art, soprattutto nella sua accezione più storica e radicale che come dici tu prevede una coincidenza tra il corpo esposto e quello dell’artista. Penso al mio lavoro come un lavoro sul corpo, mio e degli altri. Un lavoro di contatto e di superficie (non superficiale), sicuramente di esposizione e apertura in cui l’individualità non è mai osservata in modo univoco, ma entra costantemente in relazione alla collettività… “singolare-plurale” citando le parole di Jean-Luc Nancy.

[Che ruolo ha per te il pubblico?]

Il pubblico è centrale nel mio lavoro, io credo che il pubblico sia l’unica componente che contraddistingue quello che chiamiamo performance. Se non c’è pubblico non c’è performance: senza uno spettatore, colui che guarda, non c’è spettacolo… incluso quello della vita di tutti i giorni. Pensiamo agli abiti, i vestiti in cui entra il corpo, esistono anche da soli, sono degli oggetti e rispecchiano la nostra soggettività, ma li indossiamo per relazionarci agli altri, per esporci: con un gioco di parole… li abitiamo. In una performance “Oh boy! Body Nobody” chiedo al danzatore e coreografo Jacopo Jenna di svestirsi e vestirsi senza mai smettere di danzare. Si tratta di un gesto quotidiano, fatto in una dimensione pubblica, che viene stravolto nei suoi movimenti danzanti e diventa qualcos’altro, facendoci perdere la nozione di identità.

Oh boy! Body Nobody, 2017-0ngoing


[Che relazione c’è tra la componente visiva e quella sonora nelle tue opere?]

Il suono per me è molto misterioso… Da adolescente suonavo il flauto traverso e la mia maestra mi disse che non avevo il senso del suono e della musica. Questo breve ricordo, qui esposto, fa parte delle piccole vendette che ti prendi sul passato.

Alcuni anni fa facevo da dj… pur non avendo nemmeno un’idea di come mixare tra di loro le canzoni e non volevo neanche impararlo, le tagliavo o producevo dei silenzi… mi chiamavano Dj Robespierre!

La musica per me è un elemento fondamentale che si relaziona al corpo e alle sensazioni, lavorare al film “La discoteca” in cabina di montaggio audio mi ha fatto scoprire un universo sconosciuto. Mi era già capitato di vedere dei film solo ascoltandoli, l’ho fatto anche pubblicamente al MACRO di Roma proiettando solo la traccia sonora di “Profondo Rosso” di Dario Argento. Dario e i suoi fans non hanno molto apprezzato, ma per me fu un omaggio alla sua visionarietà.

Bellissimo ascoltare “Twin Peaks” del 2017… devi provare!

Non ho proprio risposto alla tua domanda, ma va bene uguale.

Throwing Balls at Night, 2016


[“La discoteca” è un film del 2021 ma è quanto mai attuale per i temi che porta - il controllo dei corpi e delle emozioni, i luoghi della socialità e la performatività del sé. Da dove nasce l’idea di questo lavoro?]

Nasce dal fatto che mi mancano quegli ambienti dove il baluginio delle luci incontra odori bizzarri e tutt* si vestono, svestono e ballano… Forse è un percorso di avanzamento dell’età a cui ho reagito inventandomi una storia che potesse farmi continuare ad abitare questi luoghi che non voglio lasciare. Ho iniziato immaginandomi rose, zombie e discoteche, il primo trattamento era una storia horror con in mezzo dei pezzi di canzoni italo-disco. La produzione quando l’ha letto tra un po' sviene, perché tutto questo nel cinema deve essere costruito e necessita molti soldi.  Mi ricordo che nel primo trattamento c’erano delle rose che bruciavano. Mi dissero subito che far bruciare una rosa è problematico perché devi usare materiali appositi, chiamare l’esperto e tutto questo ha un costo etc etc.; per me non è così, il cinema è la possibilità di illuderci e guardare una rosa che brucia senza mai diventare cenere… se hai dentro un’immagine cosi, questa si trasformerà in qualcosa che in un modo o nell’altro potrai realizzare.

La discoteca, 2021


[Oggi siamo sempre più immersi nella narrazione e i social fanno ormai parte della nostra vita, tutto ciò che fruiamo è inserito dentro a un racconto espanso e transmediale: in che modo vedi la relazione tra social e pratica performativa?]

Per i social, come per ogni pratica e linguaggio, c’è da una parte un senso di costrizione e dall’altra la possibilità di utilizzare il mezzo a piacimento creando delle possibilità inesplorate. I device sembrano cosi alienanti e alieni perché appunto sono degli intrusi che si intromettano nel linguaggio per poi cambiarlo.

William S. Burroughs disse: “Language is a virus”.

Si può anche dire che Body is a virus, Performance is a virus o, pensando a Gertrude Stein, “ A virus  is a virus is a virus is a virus is a virus...”

“A rose is not a rose” è l’inizio del film “La discoteca”.

[Mi piace tantissimo il modo in cui, nelle tue opere, i riferimenti visivi si mescolano - il mondo della danza classica con quello delle ballroom, l’immaginario della discoteca con il racconto fantascientifico - e mi viene in mente anche qui il tuo esempio dei fiori che creano armonia nella diversità. Quali sono le autrici e autori che influenzano oggi la tua ricerca?]

Come vedi ti ho citato già autori, autrici, colleghi, amici… credo che una ricerca non sia mai un fattore individuale.

Se penso a un giardino ci sono le siepi, gli alberi, le piante: Isa Genzken, Walter Siti, Kenneth Anger, Ari Aster, Jordan Peele, Kai Althoff, Jérôme Bel, Meris Angioletti, Michael Jackson, Trisha Donnelly, Eva Robin’s, Sturtevant, John Waters, Giuliano Scabia, Pauline Curnier Jardin, Sonia Gomez, Kinkaleri, Jean Cocteau, Alessandra Mancini, Tomaso Binga, Yukio Mishima, Chiara Fumai, Miranda July… per citare solo alcuni nomi che mi vengono nell’immediato, ma ce ne sono molti altri.

Nel giardino… ci sono anche i fiori; questi sono gli studenti e le studentesse che in questi ultimi anni mi hanno fatto scoprire nuovi aspetti della ricerca artistica.


[Ti va, per cominciare, di inquadrare l’ambito di cui ti occupi e come ci sei arrivato?]
Mi sono formato come sociologo dell’alcol e delle altre droghe poi, sia nel fare ricerca in questo campo sia per le mie esperienze personali, ho cominciato a interessarmi a due temi: la ricerca del piacere, connesso all’uso di sostanze legali e illegali (scarsamente considerato dalla ricerca accademica - il che mi sembrava un’assurdità perché la maggior parte delle persone utilizza sostanze per provare piacere…) e, allo stesso tempo, il contesto dei club di musica elettronica - spazi normati all’interno dei quali le persone speriementano, appunto, molti e diversi tipi di piacere… Dopo di che mi sono interessato ai Night Studies: un campo di ricerca interdisciplinare sullo studio della notte - non soltanto collegata ai club ma anche ad altri spazi e pratiche.

[Di cosa parliamo quando parliamo di piacere?]

In una visione capitalistica come quella contemporanea il piacere è sempre il prodotto di qualcosa (leggi un libro, mangi qualcosa, pippi una striscia di coca etc.) e la conseguenza di qualcosa; viene prodotto dal consumo e finisce lì.

Nella prospettiva che adotto, invece, si osservano gli aspetti generativi del piacere, ovvero cosa ci insegnano le esperienze edoniche e in che modo ciò che viene appreso si pone in un processo di resistenza rispetto a specifiche norme sociali. Per esempio, come le esperienze del clubbing servono alle persone per riscoprire il proprio corpo: danzare è una cosa che solitamente non ci viene insegnata o, anche quando questo accade, viene fatto in maniera normativa… C’è questa ossessione del “non sono capace di ballare”, quando invece la danza è la risposta che il corpo dà alla musica… non dovrebbe essere così normata. Attraverso la danza e attraverso la musica le persone possono riscoprire alcuni movimenti e alcuni piaceri che può dare l’esperienza del ballo.
Tutto ciò, inserito in un quadro contemporaneo di anestesia sociale; il clubbing all'opposto offre un possibile risveglio dei sensi, la possibilità di utilizzare il proprio corpo come fonte di piacere e in maniera più consapevole, contrapponendosi all’idea che il corpo sia solo una superficie o qualcosa che deve essere modificato secondo determinati standard…

"Notti Tossiche, Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere", Meltemi 2020

[È anche un modo per prendere contatto con sé stessɜ e con l’esterno…]

Certo, relazionarti con l’esterno attraverso la parola, per esempio, è diverso rispetto al farlo con il tuo corpo… E parlo di un corpo che non sta soffrendo o che si vuole modellare attraverso la fatica, come per esempio quello della palestra... È un corpo che si lascia andare, un corpo gioioso, che sta godendo.

Poi, ovviamente, il corpo che non segue la norma non è lo standard, anche nei club il corpo che attraverso il ballo può apprendere, e resistere alla normalizzazione, si scontra con altri usi che invece sono a favore dell’omologazione, del giudizio, etc… Le norme sono qualcosa che cominciamo a introiettare sin dalla nascita, per un processo di socializzazione che è terribile… Quindi, quando parlo di discoteca, sono consapevole del fatto che ci siano continui meccanismi di controllo - non è che se prendi una droga sei libero, tutt’altro… però nel club si aprono degli spazi di riflessione che sono importanti.

[In che modo questo approccio si traduce in azioni all’interno delle discoteche?]
Quello che si può osservare, è che per esempio tutte le strategie di awareness hanno una visione comune… magari sono interessate a temi più specifici, come la riduzione del danno o il contrasto degli abusi ma la direzione è la stessa… Ognuno opera nel proprio ambito per fare in modo che l’esperienza collettiva sia il più possibile gioiosa, e senza interferenza.

È un tema su cui c’è molta attenzione… il problema è che, come spesso accade in Italia, ci sono molte iniziative fantastiche che vanno avanti, però, nel discorso pubblico, i temi collegati alla notte e al divertimento notturno vengono semplificati e banalizzati. Un caso eclatante è quello della “movida”: si parla solo di disturbo e problemi per i residenti… non si va a vedere quali sono le origini della movida e perché si è arrivati ad avere i centri cittadini invasi dalle persone, o quali sono le norme e i processi, sociali ed economici, che hanno portato a un fenomeno sociale che prima non c’era…

“Secchiate”, per esempio (n.d.r.: la newsletter sulla notte di cui Enrico è fondatore insieme a Giorgia Castellano e Riccardo Ramello), nasce proprio con l’intenzione di dare spazio a certi temi trattandoli in maniera più dettagliata, senza che vengano subito inquadrati attraverso le solite cornici di senso e quindi come secondari rispetto a problemi più rilevanti…

Pubblicità Progresso, 1989

[Da cosa dipende questa banalizzazione?]
Io uso sempre la frase di Orson Welles nell’episodio “La ricotta” del film di Pasolini “Ro.Go.Pa.G.”, che dice: “La borghesia più ignorante d’Europa”. Non so come dire… c’è tanto, ci sono gruppi, studiosi che lavorano su questi temi, ci sono le reti internazionali… però poi, quando si arriva a quel livello ulteriore per cui queste informazioni dovrebbero essere diffuse, viene posto un limite. E potrebbe sembrare un’affermazione un po’ paranoica, ma se andiamo a guardare la storia della sinistra, certi temi sono sempre stati più importanti, certe soggettività sono state eliminate dal partito – perché se sei tossico sei un borghese, se sei frocio sei un borghese – e così non si fa in modo di collettivizzare le lotte - o come cazzo vogliono chiamarle…

Campagna istituzionale, 2023

[Quando parliamo di discoteca – hai specificato – ci riferiamo a uno spazio normato all’interno del quale ritroviamo determinati codici: che cosa intendi, in questo contesto, per resistere attraverso il piacere?]

Ti farei notare il controsenso per cui le discoteche nel discorso pubblico sono narrate come luoghi di trasgressione, anche se non lo erano neanche all’inizio… Si tratta di un fenomeno che ha più di 40 anni… niente di nuovo. Il clubbing e la musica elettronica non sono niente di nuovo e non c’è niente di trasgressivo… Ma non perché uno spazio è normato – e questa è la cosa bella che emerge da “Notti tossiche” – non diventa uno spazio politico in cui ci si può inserire e in cui si può esplorare quali sono i margini di azione per rispondere a tutti i processi di disciplinamento dei corpi e delle soggettività, tipici della nostra società neoliberista. Il fatto è che le discoteche, con il ballo e l’uso delle sostanze, danno un ampio margine di sperimentazione alle persone. E quindi, anche se il corpo e i movimenti sono normati, così come lo è anche la presentazione estetica delle persone, accade che con il proseguire delle ore, nelle discoteche, tutte quelle norme vadano un po’ a farsi benedire... L’iperstimolazione porta le persone a fare delle esperienze che contrastano l’ipercontrollo che governa i pensieri, il modo di essere, la quotidianità. Ciò che mi ha sorpreso nelle interviste di “Notte tossiche” è come la discoteca, il ballo, l’uso delle sostanze e la socialità aiutavano le persone a “smettere di pensare”. Molte delle persone intervistate avevano bisogno di uno spazio in cui stare tranquille… Il pensiero non era visto da un punto di vista illuminista; non era qualcosa di liberatorio, di positivo, che ti dà qualcosa in più… Era vissuto come ossessivo, qualcosa che ti perseguita durante il giorno perché hai mille cose a cui pensare, mille giudizi introiettati…

[Non so se centra ma, in effetti, mi viene in mente che i primi “esperimenti” su chi e come volevo essere al di fuori delle norme dettate dalla famiglia o dalla scuola, li ho fatti proprio in discoteca… Forse la discoteca mi ha aiutata a imparare qualcosa che poi ho portato anche fuori…]
Quello che dici mi risuona molto perché, pensa, se questo ha funzionato nella provincia italiana… Voglio dire, la possibilità di sperimentare nuove forme di essere, dipende dalla storia del clubbing. Se andiamo a guardare la storia della musica elettronica e della socialità danzante, il modello del clubbing contemporaneo nasce in una città, New York, tra gli anni 60 e gli anni 70, quando a creare il clubbing sono state tutte quelle persone, che Tim Lawrence (nel bellissimo "Love saves the day: A history of American dance music culture, 1970-1979") battezza party pariahs, escluse dalla società americana benestante e dalla controcultura hippy del tempo, che trovavano, nel clubbing, uno spazio d’espressione del quale – in una società etero-normativa razzista – avevano bisogno.

Dal mio punto di vista si tratta ancora di uno spazio di possibile critica sociale, perché nei club di musica elettronica il nostro modo di comportarci si contrappone alle norme, quindi queste diventano ancora più esplicite ed evidenti, e così possiamo esserne consapevoli.
Per questo, come sono stati importanti i rave negli anni 90, oggi lo è il clubbing. Siamo cresciuti come piccoli manager, ossessionati dalla competizione e dal miglioramento costante… ci definiamo attraverso il lavoro, da adulti e anche da studenti, purtroppo…
Certo, la discoteca può anche essere un rinforzo a questa mentalità – perché se ci vai per essere il più figo, il più alternativo o il più drogato, chiaramente riproduci questo schema – ma se la discoteca si oppone a quella che i sociologi italiani Chicchi e Simone hanno chiamato “Io-crazia”, e istituisci un atteggiamento di aiuto reciproco e comunità, allora riesci a sospendere questa modalità manageriale e fare esperienza di un altro modo di stare al mondo, mentre balli. Questa è resistenza!

E se assieme alla mente viene il corpo, che oggi è sempre più una superficie a cui attribuire significati o da modellare secondo alcuni standard, e sempre meno uno spazio in cui fare esperienza - a meno che queste non siano estreme – come il bungee jumping o lo sport estremo… Il clubbing invece, è fondato sull’esperienza tra corpo e musica, che è carnale. Non vai ad ascoltare un dj, vai a ballare con le altre persone, in quello spazio caldo e appiccicaticcio che è il dancefloor.

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