[Qual è il tuo approccio alla danza?]
“Danza” è una parola complicata, perché presuppone delle dinamiche e una certa idea di corpo e movimento.

Ho avuto una formazione accademica, prima in danza classica e poi contemporanea, che mi stava un po’ stretta. I due turning point che hanno segnato la mia vita e la mia percezione artistica sono arrivati in seguito, prima con una borsa per studiare a New York con Trisha Brown e, successivamente, con l’incontro della danza Butoh di Masaki-Iwana.

La danza per me ha un significato che è già cambiato diverse volte e che forse continuerà a cambiare. Sicuramente oggi posso dire che danza significa saper usare il corpo con consapevolezza, presenza e coscienza. Non soltanto una consapevolezza formale del movimento, ma interiore, che riguarda l’ascolto e l’intenzione del movimento.

Anche alzarsi da una sedia può essere una danza, dipende da come lo fai. Se lo fai con una certa intenzione, allora può diventare danza. E ogni corpo, in potenza, può danzare. Questo è per me la danza oggi.
La tecnica, poi, è un'altra cosa: è uno strumento utile o non utile, a volte limitante. Il corpo, invece, è il motore di ricerca.

Credo molto nella pratica fisica e nella disciplina, perché penso che il corpo vada conosciuto, abitato, vissuto e praticato non soltanto a livello fisico e motorio, anche energetico. In questo senso la tecnica deve essere uno strumento, non una gabbia. Vedi, anche il balletto mi ha dato tanto, più che altro una forma mentis, un’abitudine alla resistenza, alla disciplina e alla precisione ma resta per me uno strumento che ho attraversato. Decostruire quello che ho imparato forse è stata la cosa più difficile, che ancora non so se ho del tutto compiuto.

Corpus Mobile, 2014 - 2015, Federica Dauri, Kiril Bikov, ph © Alwin Poiana 

[Ti faccio una domanda che è anche un po’ una provocazione. E te lo dico perché, mentre tu mi parli di una conoscenza del corpo che passa attraverso l’esercizio e la disciplina, a me viene in mente il controllo, più che il piacere… Come si relaziona il piacere a tutto ciò?]
Domanda interessante. Il piacere lo trovo sul confine, nel limite che mi predispongo… Per esempio, se voglio cercare le sfumature del movimento delle costole, riduco i movimenti delle braccia e delle gambe e mi concentro su questo piccolo-piccolo spazio per esplorare tutte le sue possibilità. Per me questa è una forma di piacere. Però sono consapevole che in questa pratica il piacere e la frustrazione vanno di pari passo, perché la ricerca del micro-dettaglio, di ciò che è nascosto, è complessa. Non può portare immediatamente al piacere, deve passare attraverso una strada più tortuosa.

[Mi hai parlato di consapevolezza e coscienze del corpo e del movimento, come vivi l’invecchiamento?]
È un argomento complicato per me. A mio padre è stata diagnosticata una distrofia muscolare degenerativa, una malattia che trasforma il muscolo e lo fa scomparire piano piano, che ti porta quindi a osservare i suoi risultati più drammatici al di fuori, nella materia corpo.
Convivere con questa diagnosi mi ha portata ad avere una visione completamente nuova sulla precarietà del corpo; ha iniziato a muovermi il desiderio di raccontare la verità di altri corpi, anche fragili, che hanno pesi, forme e gravità diverse. E che invecchiano. Mi sta aiutando anche a fare pace con la mia paura di invecchiare, che odio, che è stata forte ed è ancora forte ma allo stesso tempo sono curiosa di continuare a raccontare il mio corpo che invecchia. Ne ho paura, ma anche ne sono attratta, vedo che cambia e questo mi intriga sempre di più.

[Ti va di parlarmi di “Interno sospeso”? Come si relazione al pubblico?]
Sono molto felice di portare “Interno sospeso” al Performatorio. È un lavoro nuovo, che ho amato e nasce in collaborazione con una compositrice con la quale lavoro da anni, Elisa Batti. “Interno sospeso” è un'evoluzione di un progetto già esistente, legato all’immobilità, in cui ero avvolta in una nuvola di rete metallica. Un materiale sottile che ha una sua durezza ma ha anche un qualcosa di profondamente etereo. Ho iniziato ad appassionarmi a questo contrasto che in qualche modo rappresenta anche una dinamica interiore - un confine. È una scultura che ogni volta si adatta allo spazio così come il mio corpo si adatta ad abitare quei limiti, infilandosi negli spazi possibili.

La rete ha molti significati, anche politici. Mi interessa come l’intelligenza del corpo trovi spazio all’interno del limite, creando nuove strade. Mentre preparavo questo lavoro pensavo all’idea dell’animale, a come trova una forma di resistenza all’interno dello spazio in cui viene costretto, senza superarlo ma trovando il modo per abitarlo.

La composizione musicale contribuisce a creare uno spazio sospeso, una bolla in cui il tempo si dilata e perde la sua connotazione. Il pubblico è invitato ad abbandonarsi, a perdersi in un’immagine senza dover cercare necessariamente un filo logico o una narrazione intellettuale. Il mio auspicio è che le persone si abbandonino a una fruizione emotiva, come possono e per il tempo che possono.

see-through, 2019, Federica Dauri

[Il tempo della contemplazione è qualcosa che stiamo perdendo…]
È una costante dei miei lavori. Penso che il tempo dilatato sia qualcosa di necessario, che stiamo dimenticando e che forse, nel mio piccolo attraverso la performance, cerco di riproporre. Perché è solo così che possiamo riprendere contatto con un modo diverso di stare, meno frenetico, meno legato al fare, al produrre. Un oziare creativo.

[Che è necessario]
Necessario per sentire il corpo.

[Stiamo tornando all’inizio di questa conversazione, quando tu mi dicevi che la tua idea di danza è una ricerca interiore del corpo, che intendi il movimento come un’intenzione deliberata che in potenza riguarda tutte le persone. La frenesia del fare e produrre invece ci allontana dall’intenzione...]
È esattamente quello che intendevo, parlando di danza ma anche, banalmente, della consapevolezza dell’effetto che ha qualsiasi cosa sul nostro corpo; della sua condizione psicofisica. In che modo una notizia che abbiamo ricevuto sosta nel nostro corpo? Quale reazione ci provoca? Dove la sentiamo? In che modo respiriamo?

Quando mi trovo a insegnare parto sempre da un grosso lavoro sul respiro e mi rendo conto quanto sia difficile, per esempio, inspirare, mantenere un’inspirazione lenta, quindi prendersi del tempo per far entrare l’aria nel nostro corpo. Già questo ti fa capire quanto poco tempo ci concediamo per sentire le nostre necessità, corporee ma anche emotive.

Fase orale, 2018, Federica Dauri e Martina Gabrielli, ph © Paolo Sasso

[Prima, parlando di “Interno sospeso” hai toccato il tema del valore simbolico e politico di un’opera. Cosa significa essere un’artista oggi, rispetto al contesto globale che stiamo vivendo?]
È un momento storico difficilissimo: troppe guerre in corso, troppe ingiustizie, troppo orrore. L’umanità sembra soffocare sotto il peso di conflitti senza fine e di violenze che si ripetono, mentre la dignità umana e i diritti fondamentali vengono calpestati ogni giorno. Basta guardare al Medio Oriente: la resistenza del popolo palestinese, schiacciato dal peso di un genocidio che minaccia di annientarlo, eppure capace di trovare ancora la forza di resistere. È un popolo che ha attraversato decenni di conflitto e una crisi umanitaria di proporzioni drammatiche. E allora mi chiedo: cosa possiamo fare noi?

Forse l’unica strada, come artisti ma prima di tutto come esseri umani, è continuare a informarsi e studiare, nutrendoci di una pluralità di fonti per sviluppare una comprensione attiva e critica. Non possiamo accettare il silenzio e l’indifferenza, dobbiamo riflettere profondamente sui diritti umani violati, sulle violenze e sulle ingiustizie, stimolando riflessioni critiche sul ruolo di una comunità internazionale che troppo spesso rimane inerte e in silenzio.

(Ph. © Hanna Schaich)

[Ti va di introdurre Alos? Chi è e com’è nata nel tuo percorso?]
Alos è nata ormai 20 anni fa, dopo gli OvO e le Allun. Venti anni fa per me era “il progetto nuovo”. È nata da un’esigenza, perché mi era capitato di fare una data da sola a Palermo – a differenza di quello che facevo con OvO che è un duo e con Allun che era una formazione aperta – e, al rientro, nel viaggio da sola da Palermo a Milano, mi ero detta che sarebbe stato interessante continuare a sviluppare un’esperienza performativa solista.

Da lì anche il nome, Alos, il contrario di “sola”. Per anni tra l’altro c’è stato un punto di domanda davanti al nome “?Alos”, come a domandarmi “sola?”. Con il tempo è scomparso ma ha avuto un significato importante, è stato un quesito identitario su cosa significa “sola” - perché di fatto poi con Alos hanno sempre collaborato altre persone, ciascuna con la sua professionalità...

[E poi c’è il pubblico; c’è sempre una relazione con il pubblico.]
Esatto. Nelle mie performance il pubblico è sempre stato fondamentale, sin dai primi lavori, che erano una ricerca sui cinque sensi e sul ruolo della donna da un punto di vista sociale e culturale.

In una delle prime performance, per esempio, giravo con una cucina mobile e cucinavo cibo vegano – 20 anni fa non era così comune – che poi condividevo con il pubblico. Mi portavo sul palco spezie, verdure, tofu, pentole, piatti e bicchieri di cristallo, allestivo la mia azione che, anche a livello sonoro, aveva un suo impatto: usavo la voce, le elettroniche, il violino, i microfoni a contatto... Il pubblico ovviamente era parte integrante, partecipava con tutti i sensi perché lo spazio si riempiva anche degli odori del cibo, e poi si mangiava davvero. Oggi i tempi sono cambiati ma allora condividere cibo vegano aveva un altro significato: era una critica e anche un’altra possibilità.

In un’altra performance, invece, cucivo. Era una sorta di musical in cui da sola, con la macchina da cucire, cucivo un pupazzo di pezza.
Volevo portare l’attenzione sia sul lavoro femminile sia sullo sfruttamento legato all’immigrazione. Ai tempi vivevo a Milano, era il periodo in cui la città era piena di laboratori colmi di immigrate cinesi sfruttatissime che lavoravano per l’industria della moda (cosa che non è cambiata affatto): mi interessava l’esperienza di chi lascia il proprio paese per trovare una situazione migliore e poi si scontra con un lavoro sottopagato e la solitudine. 

Il vero switch, il passaggio verso il rituale e un interesse verso la spiritualità – il sesto senso – è arrivato dopo “Era”, che per me era un progetto sonoro, un concerto, ma per molto tempo mi sono sentita dire di tutto: da “Bella la performance. Non è musica, vero?” a “Oh, com’è catartico!” fino a “Suoni chitarra e voce, quindi fai folk?”

"Era", 2012

Facevo doom, facevo metal. Per me era chiaro ma le persone – spesso uomini, molto spesso giornalisti – ci vedevano solo una serie di stereotipi che non avevano nulla a che fare con il mio lavoro. A un certo punto ho deciso che era un problema loro: erano limitati. Per me era chiaro quello che stavo facendo.

[Se sei una donna non puoi fare doom metal, sia mai!]

Se urli sei pazza e uscita da un manicomio… Ricordo che in una recensione per “Matrice”, album in cui dichiaravo di essere femminista, queer e anarchica – dichiarazioni che erano scritte nero su bianco nel comunicato stampa – qualcuno aveva scritto “Ci sta prendendo in giro, è pazza o cosa?”. Non puoi usare le parole in questo modo.

Facevo dischi già da 15 anni e non avevo bisogno di recensioni. Da lì in avanti ho iniziato a scegliere altre strade, anche più complicate se consideri anche solo la ricerca di spazi non convenzionali, ibridi, ma più adatti ad accogliere il mio lavoro: io non sono solo una musicista e adesso non sento neanche di affermare che faccio “performance”, faccio “riti”.

"Matrice", 2015

[Che cos’è per te il rito oggi?]
Se consideriamo il nostro quotidiano, esistono piccoli riti personali che sono importanti, perché ci permettono di focalizzarci e prenderci cura di noi stessi. Poi ci sono i riti collettivi, quelli che mi interessano, in cui sei tu con le altre persone in una dimensione altra, sospesa, nella quale avviene uno scambio - una circolarità di energie che dall’esterno si muovono verso l’interno e viceversa. Nell’esperienza contemporanea, anche andare a ballare o a un concerto può essere un rito collettivo.

Parlare di riti oggi è complesso ed è importante considerare il rito da un punto di vista storico e antropologico per non cadere nell’appropriazione culturale. Nei miei lavori ogni scelta è misurata affinché il rituale abbia una sua identità, nel rispetto del passato e delle altre culture. Un rito contemporaneo nel quale mi apro a una dimensione spaziale e temporale.

Credo fermamente nel fatto che tutto sia connesso, permeabile e attraversabile, a livello spaziale, temporale e anche verso una dimensione spirituale. E parlando con persone esperte di spiritualità mi sono spesso interrogata sul fatto che qualcuno di noi possa avere la capacità di fare da canale verso altre dimensioni invisibili.

"The Chaos Awakening", 2018

[Ti è mai capitato?]
Condivido l’esperienza che ho vissuto… Ero in Liguria con “The Chaos Awakening”, in un piccolo festival immerso nella natura - oltretutto sotto Triora, che è un posto non molto conosciuto ma con una storia incredibile: un luogo non lontano da Sanremo dove in passato, nel XVI secondo, alcune donne vennero processate per stregoneria, accusate di aver causato una carestia. In quell’occasione per la prima volta ho sentito chiaramente che ero connessa con quello che stavo facendo, al punto da accorgermi che stavo andando in trance.

Il giorno dopo raggiungo l’organizzatore che era con la sua famiglia, la mamma e la zia gli davano una mano e, per caso, la sera prima c’era anche la nonna, una signora anziana che ovviamente non era interessata alla mia musica e non la conosceva, ma era una donna molto sensibile, con un vissuto doloroso legato a quel luogo… La incontro e mi dice che la sera prima, mentre suonavo, attorno a me aveva visto molte persone tra cui il figlio morto. Al momento l’avevo presa con leggerezza, ma di lì a poco ho dovuto affrontare due gravi problemi di salute - un tumore al seno e un’encefalite che ha messo a rischio la mia vita. “Calma”, mi dico. 

Da sempre, il suono per me è uno stimolo alla connessione, lo è per Alos come lo è con gli OvO. La musica, un certo tipo di musica, ha la capacità di toccare delle corde, di aprire i canali. Nel rituale questo lo dichiaro, può accadere. Per questo mi occupo anche dello spazio in cui si svolge, lo “pulisco” da energie che potrebbero interferire e invito il pubblico a vivere il rito con una determinata propensione perché l’idea, lo scopo, è che le persone che partecipano si colleghino tra loro con un filo invisibile.

"Embrace The Darkness", 2023

[Il titolo “Embrace The Darkness” mi piace molto e mi ricorda come tutti abbiamo una zona d’ombra che tendiamo a tenere lontana da noi, perché così ci hanno insegnato a fare, quando invece accoglierla, passarci del tempo e farci due chiacchiere ci aiuterebbe meglio a capire qual è il nostro scopo. Magari il tuo è proprio quello di connettere… Dopo tutto cos'è la performance? Un’esperienza collettiva che funziona se genera un cambiamento, seppur minimo, nelle persone che partecipano.

Parlando di connessione, in “Embrace The Darkness” c’è anche un altro livello, quello con la natura. Che ruolo ha?]
La natura è un gigantesco amplificatore, e anche lei parla. In “Embrace The Darkness” provo a dare voce a quella natura che a Stromboli ho vissuto, che ho assorbito e che ho trasformato a livello creativo, attraverso la voce e il suono. Entrare in contatto con la natura significa connettersi anche con la nostra parte primordiale, animalesca.

Noi conviviamo con la natura ma di solito non è una convivenza armonica, cerchiamo sempre di dominarla, sfruttarla, ma la natura è imprevedibile e selvaggia, non la puoi addomesticare. Ero arrivata a Stromboli, dove è nato “Embrace The Darkness” subito dopo un enorme incendio che aveva arso una parte dell’isola, mettendo la natura in sofferenza e traumatizzando gli abitanti. Un incendio causato dall’uomo durante le riprese di una serie televisiva che avrebbe invece dovuto valorizzare il territorio... Ovunque c’era odore di bruciato, denso, persistente. Se natura e uomo vivono in armonia e rispetto (come per esempio nella parte dell’isola in cui si trovano gli insediamenti più antichi, che non avevano subito danni), si crea un equilibrio, diversamente si crea distruzione.

Nel 2021, molto prima che Performatorio aprisse le sue porte al pubblico, Eleonora Quadri cominciò a interessarsi alla sua storia all’interno del contesto cittadino. Così nacque “Zero”, il primo progetto dentro l’ex lavatoio di via Nazario Sauro. Un intervento effimero: una carta da parati che riprendendo il pattern del reticolo dei corsi d’acqua sotterranei di Bergamo, ricopriva la parete dell’edificio che sarebbe stata abbattuta con l’inizio dei lavori di ristrutturazione, oltre a una serie di proiezioni verso l’esterno, visibili ai passanti e al vicinato nelle ore serali.

Quello che resta oggi di “Zero” è la sua documentazione e questa conversazione con Eleonora; ciò che ci riporta con forza a quel 2021 è il fatto che “Zero” non era la fine, ma solo l’inizio. 

[Che rapporto hai con la città? Come la vivi?]
Ho cambiato spesso città, mi sono trasferita all’Università, poi ho fatto un anno di Erasmus e uno di tesi in due città diverse, ho studiato fotografia in un’altra ancora e mi è capitato di fermarmi in altre tre per oltre un mese. Forse anche per questo non sento di appartenere a una città in particolare. Amo esplorare le città, passeggiare

Considero Bergamo “la mia città” perché è qui che sono cresciuta, dove ha vissuto la mia famiglia, e forse, paradossalmente, è proprio quella a cui ho dedicato meno esplorazione. Negli anni ho imparato a trasferirmi e ad ambientarmi in contesti diversi ma anche a studiare la storia delle città, a visitarle, a creare delle abitudini, dei luoghi ricorrenti - cosa che a Bergamo non ho fatto o ho fatto solo in parte…

Quando mi trovo in una città nuova mi piace studiarne la storia, capire come si è costruita, leggere nello spazio urbano la trasposizione del suo sistema sociale – un aspetto molto evidente nelle città europee. È un’entità - la città - un organismo con delle costanti che si ripetono – in Europa in maniera molto simile e coerente.

[Quale sensazione hai provato entrando per la prima volta al Performatorio? Che effetto ti ha fatto?]
Uso una parola “strana”: mi ha fatto “tenerezza”. Mi è sembrato qualcosa messo lì, a caso… Mi sono domandata: “Perché hanno costruito un edificio così piccolo e così particolare proprio qui, in mezzo a tutti questi palazzi?” Lo vedi, è un po’ estraneo… L’ho trovato molto curioso, molto interessante.

[Cosa ti ha incuriosita?]
Intanto mi ha colpita il blu del suo pavimento, così come la greca gialla disegnata attorno alle pareti, e la parte della vetrina con tutti quegli strati di carte e muri uno sopra l’altro, mi ha dato l’idea di un luogo che è stato tante cose e ogni volta ha mantenuto delle tracce del suo passato, che ha avuto diverse funzioni e ora non capisci più cosa sia…

Performatorio, 2021


[Nel tuo progetto “Zero” da cosa sei partita? Qual è stata la tua urgenza o l’elemento che ti ha agganciata?]
Il canale, per due motivi in realtà: uno, perché una delle cose che Scande mi aveva detto – o forse glielo avevo chiesto io, non ricordo – era che in passato il Performatorio era stato un lavatoio. E poi c’è questa cosa dei canali nascosti nelle città che mi piace, la trovo interessante su Bergamo perché te ne dimentichi proprio... è un aspetto che ho riscontrato anche a Bologna, dove ho vissuto a lungo: anche qui ci sono molti canali che nel tempo sono stati nascosti. In via Riva di Reno, tutta la zona di via Indipendenza, la parte di viale Oberdan in cui vedi proprio il fiume - esattamente come a Bergamo.
Piano piano le città hanno coperto queste parti acquee che in realtà servivano, sia a livello industriale sia nella vita. Mi è piaciuto il fatto che lui - il Performatorio - fosse sopra il canale, mi ha attirata l’idea di questo posto così piccolo e così decontestualizzato ma posto esattamente sopra a questo elemento, l’acqua, sopra i canali di cui a Bergamo ci si dimentica e così, nemmeno te ne prendi cura [ti dimentichi che sotto di te, anche se no lo vedi, ci potrebbe essere qualcosa]. Forse Borgo Palazzo è la zona in cui il corso dei canali è rimasto più visibile: hanno costruito dove si potevano creare fondamenta, quindi l’acqua ha disegnato la città.

vista dal retro del Performatorio, 2021


[Se la città fosse un organismo vivente, i canali cosa potrebbero essere?]
Le vene, una linfa [ho immaginato i reni].

Partendo dai canali, ho poi pensato alla loro mappa. Mi piaceva il fatto che il Performatorio si collegasse alla città attraverso l’acqua.

Inoltre, voi sareste intervenuti nello spazio, con la ristrutturazione… volevo qualcosa che entrasse in relazione anche con i lavori, così ho pensato che tutto ciò che era rimasto di questo luogo, della sua storia, era attaccato alle sue pareti: lavorare su questo aspetto mi è sembrato quanto di più aderente potessi fare, senza ricorrere a un intervento che andasse a trasformare o interpretare il luogo. Qualcosa che da un lato richiamasse quello che già c’era e che allo stesso tempo potesse avere una sembianza non definiva, come la carta da parati, che si attacca a un elemento già presente nello spazio - le pareti. Mi piaceva inoltre l’idea che questo intervento andasse a evidenziare proprio quegli elementi che con la ristrutturazione sarebbero scomparsi, non so perché… Mi attirava l’idea di compiere un gesto così invasivo, come incollare della tappezzeria, e pensare che poi sarebbe stato distrutto [mi interessa la curiosità di Eleonora, il suo incuriosirsi, andare oltre la tenerezza. Curiosità intesa nella sua accezione etimologica, dal latino cura, intesa come premura. Il curioso altro non è che chi si prende cura di qualcosa e così facendo, la trasforma].

Zero, 2021


[Che effetto ti fa pensare a questa cosa? Immaginare che quello che hai fatto andrà distrutto?]
Mi rimanda a qualcosa di inutile, che già sai che andrà perso ma allo stesso tempo è qualcosa che dà valore, che esiste solo in quel tempo che hai deciso di rendere prezioso. È un po’ come se sottolineasse quelle parti architettoniche che poi andranno distrutte, come a dire “ora ci sono e ad un certo punto non ci saranno più”. Ecco, forse più che inutile è qualcosa che ha a che fare con l’accettare…

Mi piaceva anche l’idea di fare qualcosa per chi quello spazio l’avrebbe letteralmente trasformato - gli operai - e quindi non lo avrebbe neanche vissuto come uno spazio espositivo. Se fai un intervento che resta e viene visto diventa anche un’esposizione, invece, in questo caso è qualcosa che fai per il luogo e basta. Però, sicuramente, vai a disegnare lo spazio, a unificarlo, e poi non so, c’entra anche con il non essere troppo indifferenti: c’è questo spazio così liminare, quello delle pareti, uno spessore che se ne andrà e io intervengo proprio lì, dove verrà distrutto [e a proposito di acqua, in fisica lo “strato liminare” è lo strato fluido aderente alla superficie di un corpo].


[Cosa intendi quando dici “non essere troppo indifferenti”?]
È una cosa minuscola in realtà: porre attenzione a qualcosa che potrebbe tranquillamente passare inosservata [non mi sembra una cosa “minuscola”]. Infondo, si può dare importanza a ogni cosa, ma una volta che lo fai non torni più indietro.

C’è anche un’altra cosa che mi sta venendo in mente adesso, un’idea che mi piace molto: scattare una serie di fotografie a questo progetto prima che comincino i lavori. Con questa sembianza “Zero” non esisterà più e le immagini saranno l’unica sopravvivenza di questo momento.

[Se “Zero” fosse un messaggio, se chiedesse qualcosa alle persone che lo vedono? Cosa chiederebbe?]
Mi piace l’idea che possa dire “renditi conto di dove sei: tu sei qui”. Per quanto ogni luogo possa essere percepito come banale, in realtà lì è dove sei in quel momento. Anche l’idea di immaginarsi in un punto all’interno della rete di canali, di localizzarsi in quella mappa che non è quella delle strade a cui siamo abituati, ma è un’altra mappa, sotterranea. Renditi conto che tu sei proprio in quel punto.

[Se fosse una richiesta ancora più specifica?]
Sii consapevole [leggo “non dare nulla per scontato” e mi commuove]. Il canale ti riporta a tutto: qui probabilmente una volta c’erano dei mulini, luoghi in cui le persone andavano a lavare, tutta quella zona era completamente aperta su Città Alta e il fatto che ci fossero i canali la rendeva sfruttabile. “Non cancellare, non dimenticare”. Possiamo attivare percorsi di memoria partendo davvero da niente – questo è un aspetto che in generale mi interessa, mi piace. Tra l’altro ho fatto vedere la foto del Performatorio ad una delle mie migliori amiche e ho scoperto che era il negozio di sua zia, ci lavorava suo padre [la trovo una bellissima coincidenza], avevano un sacco di commissioni e lui andava ad “attaccare” tappezzerie in Libia [mi meraviglia che la traccia di questo gesto – attaccare, ricoprire, rivestire una parete - si sia manifestato da sé, prima ancora che Eleonora conoscesse la storia di questo luogo]. È strano…

[Cosa ti porti via da questa esperienza?]
Mi è piaciuto fare un lavoro qui, a Bergamo [hai finalmente “esplorato” la tua città], mettermi in un aspetto progettuale, oltre che collaborare con voi. È stato bello dare senso a questo luogo, e mi piace l’idea di poter raccogliere altro materiale, anche sulla storia del quartiere, come punto di partenza per una documentazione. Banalmente anche pulirlo mi è piaciuto: pulire i vetri, svuotarlo, spostare tutto, vederlo un po’ nudo… lo fai un po’ tuo [come in una relazione intima].

Nella mia ricerca mi è capitato di lavorare in luoghi abbandonati, per esempio mi è capitato di fare un lavoro sulle zone terremotate del Centro Italia per il quale avevo fatto questa ricerca sui terremoti antichi, però alla fine i soggetti delle immagini erano sempre spazi in cui non c’erano evidenti tracce di terremoti, c’erano segni di vissuto. Mi interessano in generale i luoghi dimenticati perché è bello riscoprirli, ma è bello anche semplicemente fare un intervento che ti permetta di spostare lo sguardo [“spostare lo sguardo” è qualcosa che mi arriva forte dal lavoro di Eleonora. Verso il basso, verso la rete invisibili di canali per collocare il Performatorio e chiederci di localizzarci, di guardarci attorno].

Zero, 2021


Mettere la mappa sulla carta è stato anche un modo per utilizzare qualcosa di non invasivo: una greca estremamente legata allo spazio, una ragnatela che ricopre tutto all’interno. In fondo è un disegno di come quello spazio si relaziona con tutta la città, che va a rivestire il suo interno, ma che io non scelgo in fondo perché è già lì, non faccio altro che spostarlo. Senza che questa scelta sia una mia decisione arbitraria [Rivolgere lo sguardo, cambiare le coordinate, provare a muoverci in una direzione che non sia sempre quella a cui siamo abituati, cosa succede se cambi i termini di relazione con uno spazio? Se metti la testa fuori dalla caverna?].

Eleonora Quadri è un'artista con base a Bergamo. Ha partecipato a mostre e residenze in diverse istituzioni tra cui Izolyatsia a Kiyv, Hangar a Lisbona, Fondazione Fabbri, Murate Art District di Firenze, l'Istituto Italiano di Cultura a Berlino, MATA di Modena, Palazzo Lucarini a Trevi, Fondazione Carlo Gajani.

“Ho una formazione in storia dell’arte e in fotografia. Mi interessa partire dai luoghi e dalla loro storia, avvicinarmi fino a scoprire un elemento da cui partire per costruire una narrazione. Intreccio fotografia, video, materiale d’archivio e scrittura cercando un equilibrio tra i linguaggi, creando corrispondenze, richiami o contrasti tra gli elementi posti nello spazio, che funzionano come pesi, come aderenze, calchi e nascondigli per le storie da cui parto”.

[Quando si parla di performance si è soliti pensare alla presenza, fisica, del corpo, che spesso coincide con quello dell’artista. Nella tua pratica, invece, la performance si libera in un certo senso da questa “etichetta” e il linguaggio si espande attraverso altri media. Qual è il tuo interesse? Ti va di descrivermi la tua ricerca?]

Il corpo è al centro del mio percorso, della mia pratica e della mia ricerca… più che la performance. Io non sono un performer e non uso strettamente il medium della performance art, soprattutto nella sua accezione più storica e radicale che come dici tu prevede una coincidenza tra il corpo esposto e quello dell’artista. Penso al mio lavoro come un lavoro sul corpo, mio e degli altri. Un lavoro di contatto e di superficie (non superficiale), sicuramente di esposizione e apertura in cui l’individualità non è mai osservata in modo univoco, ma entra costantemente in relazione alla collettività… “singolare-plurale” citando le parole di Jean-Luc Nancy.

[Che ruolo ha per te il pubblico?]

Il pubblico è centrale nel mio lavoro, io credo che il pubblico sia l’unica componente che contraddistingue quello che chiamiamo performance. Se non c’è pubblico non c’è performance: senza uno spettatore, colui che guarda, non c’è spettacolo… incluso quello della vita di tutti i giorni. Pensiamo agli abiti, i vestiti in cui entra il corpo, esistono anche da soli, sono degli oggetti e rispecchiano la nostra soggettività, ma li indossiamo per relazionarci agli altri, per esporci: con un gioco di parole… li abitiamo. In una performance “Oh boy! Body Nobody” chiedo al danzatore e coreografo Jacopo Jenna di svestirsi e vestirsi senza mai smettere di danzare. Si tratta di un gesto quotidiano, fatto in una dimensione pubblica, che viene stravolto nei suoi movimenti danzanti e diventa qualcos’altro, facendoci perdere la nozione di identità.

Oh boy! Body Nobody, 2017-0ngoing


[Che relazione c’è tra la componente visiva e quella sonora nelle tue opere?]

Il suono per me è molto misterioso… Da adolescente suonavo il flauto traverso e la mia maestra mi disse che non avevo il senso del suono e della musica. Questo breve ricordo, qui esposto, fa parte delle piccole vendette che ti prendi sul passato.

Alcuni anni fa facevo da dj… pur non avendo nemmeno un’idea di come mixare tra di loro le canzoni e non volevo neanche impararlo, le tagliavo o producevo dei silenzi… mi chiamavano Dj Robespierre!

La musica per me è un elemento fondamentale che si relaziona al corpo e alle sensazioni, lavorare al film “La discoteca” in cabina di montaggio audio mi ha fatto scoprire un universo sconosciuto. Mi era già capitato di vedere dei film solo ascoltandoli, l’ho fatto anche pubblicamente al MACRO di Roma proiettando solo la traccia sonora di “Profondo Rosso” di Dario Argento. Dario e i suoi fans non hanno molto apprezzato, ma per me fu un omaggio alla sua visionarietà.

Bellissimo ascoltare “Twin Peaks” del 2017… devi provare!

Non ho proprio risposto alla tua domanda, ma va bene uguale.

Throwing Balls at Night, 2016


[“La discoteca” è un film del 2021 ma è quanto mai attuale per i temi che porta - il controllo dei corpi e delle emozioni, i luoghi della socialità e la performatività del sé. Da dove nasce l’idea di questo lavoro?]

Nasce dal fatto che mi mancano quegli ambienti dove il baluginio delle luci incontra odori bizzarri e tutt* si vestono, svestono e ballano… Forse è un percorso di avanzamento dell’età a cui ho reagito inventandomi una storia che potesse farmi continuare ad abitare questi luoghi che non voglio lasciare. Ho iniziato immaginandomi rose, zombie e discoteche, il primo trattamento era una storia horror con in mezzo dei pezzi di canzoni italo-disco. La produzione quando l’ha letto tra un po' sviene, perché tutto questo nel cinema deve essere costruito e necessita molti soldi.  Mi ricordo che nel primo trattamento c’erano delle rose che bruciavano. Mi dissero subito che far bruciare una rosa è problematico perché devi usare materiali appositi, chiamare l’esperto e tutto questo ha un costo etc etc.; per me non è così, il cinema è la possibilità di illuderci e guardare una rosa che brucia senza mai diventare cenere… se hai dentro un’immagine cosi, questa si trasformerà in qualcosa che in un modo o nell’altro potrai realizzare.

La discoteca, 2021


[Oggi siamo sempre più immersi nella narrazione e i social fanno ormai parte della nostra vita, tutto ciò che fruiamo è inserito dentro a un racconto espanso e transmediale: in che modo vedi la relazione tra social e pratica performativa?]

Per i social, come per ogni pratica e linguaggio, c’è da una parte un senso di costrizione e dall’altra la possibilità di utilizzare il mezzo a piacimento creando delle possibilità inesplorate. I device sembrano cosi alienanti e alieni perché appunto sono degli intrusi che si intromettano nel linguaggio per poi cambiarlo.

William S. Burroughs disse: “Language is a virus”.

Si può anche dire che Body is a virus, Performance is a virus o, pensando a Gertrude Stein, “ A virus  is a virus is a virus is a virus is a virus...”

“A rose is not a rose” è l’inizio del film “La discoteca”.

[Mi piace tantissimo il modo in cui, nelle tue opere, i riferimenti visivi si mescolano - il mondo della danza classica con quello delle ballroom, l’immaginario della discoteca con il racconto fantascientifico - e mi viene in mente anche qui il tuo esempio dei fiori che creano armonia nella diversità. Quali sono le autrici e autori che influenzano oggi la tua ricerca?]

Come vedi ti ho citato già autori, autrici, colleghi, amici… credo che una ricerca non sia mai un fattore individuale.

Se penso a un giardino ci sono le siepi, gli alberi, le piante: Isa Genzken, Walter Siti, Kenneth Anger, Ari Aster, Jordan Peele, Kai Althoff, Jérôme Bel, Meris Angioletti, Michael Jackson, Trisha Donnelly, Eva Robin’s, Sturtevant, John Waters, Giuliano Scabia, Pauline Curnier Jardin, Sonia Gomez, Kinkaleri, Jean Cocteau, Alessandra Mancini, Tomaso Binga, Yukio Mishima, Chiara Fumai, Miranda July… per citare solo alcuni nomi che mi vengono nell’immediato, ma ce ne sono molti altri.

Nel giardino… ci sono anche i fiori; questi sono gli studenti e le studentesse che in questi ultimi anni mi hanno fatto scoprire nuovi aspetti della ricerca artistica.


[Ti va, per cominciare, di inquadrare l’ambito di cui ti occupi e come ci sei arrivato?]
Mi sono formato come sociologo dell’alcol e delle altre droghe poi, sia nel fare ricerca in questo campo sia per le mie esperienze personali, ho cominciato a interessarmi a due temi: la ricerca del piacere, connesso all’uso di sostanze legali e illegali (scarsamente considerato dalla ricerca accademica - il che mi sembrava un’assurdità perché la maggior parte delle persone utilizza sostanze per provare piacere…) e, allo stesso tempo, il contesto dei club di musica elettronica - spazi normati all’interno dei quali le persone speriementano, appunto, molti e diversi tipi di piacere… Dopo di che mi sono interessato ai Night Studies: un campo di ricerca interdisciplinare sullo studio della notte - non soltanto collegata ai club ma anche ad altri spazi e pratiche.

[Di cosa parliamo quando parliamo di piacere?]

In una visione capitalistica come quella contemporanea il piacere è sempre il prodotto di qualcosa (leggi un libro, mangi qualcosa, pippi una striscia di coca etc.) e la conseguenza di qualcosa; viene prodotto dal consumo e finisce lì.

Nella prospettiva che adotto, invece, si osservano gli aspetti generativi del piacere, ovvero cosa ci insegnano le esperienze edoniche e in che modo ciò che viene appreso si pone in un processo di resistenza rispetto a specifiche norme sociali. Per esempio, come le esperienze del clubbing servono alle persone per riscoprire il proprio corpo: danzare è una cosa che solitamente non ci viene insegnata o, anche quando questo accade, viene fatto in maniera normativa… C’è questa ossessione del “non sono capace di ballare”, quando invece la danza è la risposta che il corpo dà alla musica… non dovrebbe essere così normata. Attraverso la danza e attraverso la musica le persone possono riscoprire alcuni movimenti e alcuni piaceri che può dare l’esperienza del ballo.
Tutto ciò, inserito in un quadro contemporaneo di anestesia sociale; il clubbing all'opposto offre un possibile risveglio dei sensi, la possibilità di utilizzare il proprio corpo come fonte di piacere e in maniera più consapevole, contrapponendosi all’idea che il corpo sia solo una superficie o qualcosa che deve essere modificato secondo determinati standard…

"Notti Tossiche, Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere", Meltemi 2020

[È anche un modo per prendere contatto con sé stessɜ e con l’esterno…]

Certo, relazionarti con l’esterno attraverso la parola, per esempio, è diverso rispetto al farlo con il tuo corpo… E parlo di un corpo che non sta soffrendo o che si vuole modellare attraverso la fatica, come per esempio quello della palestra... È un corpo che si lascia andare, un corpo gioioso, che sta godendo.

Poi, ovviamente, il corpo che non segue la norma non è lo standard, anche nei club il corpo che attraverso il ballo può apprendere, e resistere alla normalizzazione, si scontra con altri usi che invece sono a favore dell’omologazione, del giudizio, etc… Le norme sono qualcosa che cominciamo a introiettare sin dalla nascita, per un processo di socializzazione che è terribile… Quindi, quando parlo di discoteca, sono consapevole del fatto che ci siano continui meccanismi di controllo - non è che se prendi una droga sei libero, tutt’altro… però nel club si aprono degli spazi di riflessione che sono importanti.

[In che modo questo approccio si traduce in azioni all’interno delle discoteche?]
Quello che si può osservare, è che per esempio tutte le strategie di awareness hanno una visione comune… magari sono interessate a temi più specifici, come la riduzione del danno o il contrasto degli abusi ma la direzione è la stessa… Ognuno opera nel proprio ambito per fare in modo che l’esperienza collettiva sia il più possibile gioiosa, e senza interferenza.

È un tema su cui c’è molta attenzione… il problema è che, come spesso accade in Italia, ci sono molte iniziative fantastiche che vanno avanti, però, nel discorso pubblico, i temi collegati alla notte e al divertimento notturno vengono semplificati e banalizzati. Un caso eclatante è quello della “movida”: si parla solo di disturbo e problemi per i residenti… non si va a vedere quali sono le origini della movida e perché si è arrivati ad avere i centri cittadini invasi dalle persone, o quali sono le norme e i processi, sociali ed economici, che hanno portato a un fenomeno sociale che prima non c’era…

“Secchiate”, per esempio (n.d.r.: la newsletter sulla notte di cui Enrico è fondatore insieme a Giorgia Castellano e Riccardo Ramello), nasce proprio con l’intenzione di dare spazio a certi temi trattandoli in maniera più dettagliata, senza che vengano subito inquadrati attraverso le solite cornici di senso e quindi come secondari rispetto a problemi più rilevanti…

Pubblicità Progresso, 1989

[Da cosa dipende questa banalizzazione?]
Io uso sempre la frase di Orson Welles nell’episodio “La ricotta” del film di Pasolini “Ro.Go.Pa.G.”, che dice: “La borghesia più ignorante d’Europa”. Non so come dire… c’è tanto, ci sono gruppi, studiosi che lavorano su questi temi, ci sono le reti internazionali… però poi, quando si arriva a quel livello ulteriore per cui queste informazioni dovrebbero essere diffuse, viene posto un limite. E potrebbe sembrare un’affermazione un po’ paranoica, ma se andiamo a guardare la storia della sinistra, certi temi sono sempre stati più importanti, certe soggettività sono state eliminate dal partito – perché se sei tossico sei un borghese, se sei frocio sei un borghese – e così non si fa in modo di collettivizzare le lotte - o come cazzo vogliono chiamarle…

Campagna istituzionale, 2023

[Quando parliamo di discoteca – hai specificato – ci riferiamo a uno spazio normato all’interno del quale ritroviamo determinati codici: che cosa intendi, in questo contesto, per resistere attraverso il piacere?]

Ti farei notare il controsenso per cui le discoteche nel discorso pubblico sono narrate come luoghi di trasgressione, anche se non lo erano neanche all’inizio… Si tratta di un fenomeno che ha più di 40 anni… niente di nuovo. Il clubbing e la musica elettronica non sono niente di nuovo e non c’è niente di trasgressivo… Ma non perché uno spazio è normato – e questa è la cosa bella che emerge da “Notti tossiche” – non diventa uno spazio politico in cui ci si può inserire e in cui si può esplorare quali sono i margini di azione per rispondere a tutti i processi di disciplinamento dei corpi e delle soggettività, tipici della nostra società neoliberista. Il fatto è che le discoteche, con il ballo e l’uso delle sostanze, danno un ampio margine di sperimentazione alle persone. E quindi, anche se il corpo e i movimenti sono normati, così come lo è anche la presentazione estetica delle persone, accade che con il proseguire delle ore, nelle discoteche, tutte quelle norme vadano un po’ a farsi benedire... L’iperstimolazione porta le persone a fare delle esperienze che contrastano l’ipercontrollo che governa i pensieri, il modo di essere, la quotidianità. Ciò che mi ha sorpreso nelle interviste di “Notte tossiche” è come la discoteca, il ballo, l’uso delle sostanze e la socialità aiutavano le persone a “smettere di pensare”. Molte delle persone intervistate avevano bisogno di uno spazio in cui stare tranquille… Il pensiero non era visto da un punto di vista illuminista; non era qualcosa di liberatorio, di positivo, che ti dà qualcosa in più… Era vissuto come ossessivo, qualcosa che ti perseguita durante il giorno perché hai mille cose a cui pensare, mille giudizi introiettati…

[Non so se centra ma, in effetti, mi viene in mente che i primi “esperimenti” su chi e come volevo essere al di fuori delle norme dettate dalla famiglia o dalla scuola, li ho fatti proprio in discoteca… Forse la discoteca mi ha aiutata a imparare qualcosa che poi ho portato anche fuori…]
Quello che dici mi risuona molto perché, pensa, se questo ha funzionato nella provincia italiana… Voglio dire, la possibilità di sperimentare nuove forme di essere, dipende dalla storia del clubbing. Se andiamo a guardare la storia della musica elettronica e della socialità danzante, il modello del clubbing contemporaneo nasce in una città, New York, tra gli anni 60 e gli anni 70, quando a creare il clubbing sono state tutte quelle persone, che Tim Lawrence (nel bellissimo "Love saves the day: A history of American dance music culture, 1970-1979") battezza party pariahs, escluse dalla società americana benestante e dalla controcultura hippy del tempo, che trovavano, nel clubbing, uno spazio d’espressione del quale – in una società etero-normativa razzista – avevano bisogno.

Dal mio punto di vista si tratta ancora di uno spazio di possibile critica sociale, perché nei club di musica elettronica il nostro modo di comportarci si contrappone alle norme, quindi queste diventano ancora più esplicite ed evidenti, e così possiamo esserne consapevoli.
Per questo, come sono stati importanti i rave negli anni 90, oggi lo è il clubbing. Siamo cresciuti come piccoli manager, ossessionati dalla competizione e dal miglioramento costante… ci definiamo attraverso il lavoro, da adulti e anche da studenti, purtroppo…
Certo, la discoteca può anche essere un rinforzo a questa mentalità – perché se ci vai per essere il più figo, il più alternativo o il più drogato, chiaramente riproduci questo schema – ma se la discoteca si oppone a quella che i sociologi italiani Chicchi e Simone hanno chiamato “Io-crazia”, e istituisci un atteggiamento di aiuto reciproco e comunità, allora riesci a sospendere questa modalità manageriale e fare esperienza di un altro modo di stare al mondo, mentre balli. Questa è resistenza!

E se assieme alla mente viene il corpo, che oggi è sempre più una superficie a cui attribuire significati o da modellare secondo alcuni standard, e sempre meno uno spazio in cui fare esperienza - a meno che queste non siano estreme – come il bungee jumping o lo sport estremo… Il clubbing invece, è fondato sull’esperienza tra corpo e musica, che è carnale. Non vai ad ascoltare un dj, vai a ballare con le altre persone, in quello spazio caldo e appiccicaticcio che è il dancefloor.

A cura di Invisible°Show.

[English extended interview: On silencing, aging, and the implicated body on stage]
 

[Come percepite le istituzioni culturali oggi e quali sono le sfide che affrontate per confrontarvi con questo sistema?]
Adrienne: Nutro seri dubbi riguardo al finanziamento pubblico per le arti; sembra spesso uno strumento di controllo. Vivendo in Germania, devo essere cauta nel parlare di questioni come la Palestina e Gaza e nel sostenere movimenti come il BDS. Credo che questo strumento di controllo abbia avuto un effetto intimidatorio sulla libertà di parola nel mondo dell'arte. Vogliamo sfidare il funzionamento di questa macchina da guerra, disturbarla e, alla fine, smantellarla.

Kate: Concordo, specialmente riguardo all’oppressione delle voci pro-Palestina. Tuttavia, il meccanismo di controllo si applica anche a temi come il sex work, la queerness e l’antiviolenza. Sembra che ovunque ci sia molto denaro, ci sia controllo. Non a caso, la maggior parte del nostro lavoro è autofinanziato, il che ci dà più libertà di parlare senza temere ritorsioni.

[Pensate mai a come il vostro corpo sia uno strumento o un ostacolo per fare arte?]
Kate: La mia strategia consiste nel dare priorità al nutrire il mio corpo come parte della mia sopravvivenza. Se non posso permettermi le lezioni di danza, accetto lavori  che hanno a che fare con la danza e li utilizzo come opportunità di scoperta fisica. Ho sempre considerato ogni lavoro come un'occasione per prendermi cura del mio corpo, non solo per guadagnare denaro. Se non posso permettermi un taxi, faccio lunghe pedalate in bicicletta, trasformando ciò che potrebbe sembrare un sacrificio in un'esperienza benefica.

Adrienne: Percepisco il limite dei nostri corpi, sai, come se si stessero sempre più consumando e avvicinando a un punto in cui l'unità di energia, metabolismo e tutto ciò che ci mantiene... Beh, quell'unità non esisterà più. Ma Non sono pessimista sull'invecchiamento, perché con l'invecchiamento ci saranno altre cose che potrò fare con il mio corpo.

Ph. Marketa Bendova

[A proposito di invecchiamento, cosa pensate del valore performativo della giovinezza?]

Kate: Dobbiamo resistere attivamente alla tendenza di percepire gioventù e vecchiaia come una dicotomia, poiché i nostri corpi continuano a evolversi. Sebbene ammiri la disciplina de* ballerin* che cercano la perfezione fisica e la flessibilità, metto in discussione l'idea di superarsi continuamente fino a raggiungere un culmine, oltre il quale solo il declino sembra imminente. Trovo ispirazione in figure come Kazuo Ōno, il ballerino Butō che ha iniziato il suo percorso di danza in tarda età, mostrando la bellezza e la ricchezza dei corpi invecchiati.

Adrienne: L'esempio di Ōno come ballerino mi colpisce profondamente. Credo che il suo lascito metta in evidenza l'importanza dei corpi più anziani nel campo della danza. Riguardo al Butō, la mia idea è che si tratti di accedere alle energie che sono all'interno del proprio corpo, una pratica che non è limitata dall'età o dalle capacità fisiche. Ho imparato che le performance meno incentrate sulla rigorosa disciplina fisica possono spesso evocare emozioni più profonde.


Ph. Emre Birisman

[Come fate a portare sul palco, esteticamente, le vostre idee?]

Kate: Quello che si indossa è particolarmente importante: non si può sempre controllare come il pubblico lo interpreta. Spesso mi ritrovo a ricorrere al corpo nudo come espressione più autentica, non in senso sessuale, ma come rappresentazione cruda di sé, priva degli status intrinsechi del vestiario (perché tutti i vestiti portano segni e simboli, e tutti i vestiti sono fatti da persone lavoratrici). Quando abbiamo usato i costumi, lo abbiamo fatto esplorando temi come il BDSM o la carica sessuale dei corpi queer, sfidando le nozioni tradizionali. Abbiamo anche usato il body painting che, sebbene inizialmente servisse a comunicare un'estetica ultraterrena e gender-neutral, alla fine abbiamo rivalutato le sue implicazioni, in particolare riguardo alla razza e al colorismo. Abbiamo capito che il body painting poteva involontariamente oscurare le discussioni sulla razza, pertanto, abbiamo deciso di smettere di utilizzarlo.

Adrienne: Forse non avremmo dovuto smettere del tutto di utilizzareil body painting. Invece, avremmo potuto integrarlo in modo diverso, come lavandolo durante la performance per simboleggiare il nostro rapporto in evoluzione con esso e la nostra consapevolezza. Dobbiamo rinunciare a un certo controllo su come le nostre idee, filtrate attraverso il corpo, vengono interpretate dalle altre persone. Mi viene in mente un esempio che coinvolge il mio nipotino di tre anni. Quando sua madre era di nuovo incinta, ha iniziato a fare questo gesto, invitando gli altri a toccargli la pancia e ad ascoltarla, come se anche lui fosse in attesa. Io non so se lui ne fosse convinto o meno ma la sua performance comunicava i suoi pensieri e dilemmi sul cambiamento imminente e sull'arrivo di una nuova vita. Assistere alle sue azioni mi ha spinta a riflettere sul mio stesso rapporto con il mio corpo.

[Chi è Ateliersi? Cosa fa e, soprattutto, perché lo fa?]
(Fiorenza) Ateliersi è un riflessivo che non esiste, indica il fare di sé stess* un luogo laboratoriale - un atelier. Ha due modi di essere pronunciato e anche due modi per essere scritto: “Ateliersi” tutto attaccato è la compagnia, la parte creativa, mentre “Atelier Sì” è il luogo, lo spazio che abbiamo la grandissima fortuna di abitare qui a Bologna. È uno dei teatri riconosciuti dal Sistema Teatrale Bolognese ed è la nostra casa, la nostra sala prove, il luogo dove viviamo e scriviamo, dove ospitiamo delle residenze, dove lavoriamo e che vogliamo condividere, proprio per il suo significato, con altri artisti e artiste.

La compagnia, invece, è quello che noi siamo attraverso la scrittura, che intendiamo come un perfetto e meraviglioso percorso di conoscenza: da quando costruisci lo spettacolo andando alla ricerca del materiale che non conosci – un grandissimo lusso e dovere e diritto allo studio – fino a quando, poi, trasformi tutto questo materiale in una scrittura scenica.

Le nostre sono per lo più scritture originali, ci diverte stare sempre nella realtà e tentare di condensare senso attorno ad essa.

Siamo una decina di persone che più o meno lavorano quotidianamente attorno al nostro progetto, più varie collaborazioni, tra cui anche quella con Andrea che in realtà era già un amico e un collaboratore prima ancora che Ateliersi esistesse.

[Qual è il perché di Ateliersi?]
(Fiorenza) La ricerca – il bisogno – di un luogo di azione libera, di movimento autonomo e pieno di libertà. E non potrebbe essere altrimenti.

Quando si intraprende un percorso nel teatro, nell’arte, ma anche la vita è così, un percorso che ti porta a dei bivi: devi scegliere sempre. Noi ci siamo accort* che le scelte che facciamo solo quelle che ci permettono di stare nella profondità degli argomenti e dei temi che vogliamo trattare e anche - non so se è corretto dirlo così - nel benessere relazionale. Una volta il luogo d’arte mi sembrava un lusso, lo dicevo sempre anche nei percorsi di formazione – “Abbiamo un grande lusso a stare qua, a lavorare qua” – mentre adesso mi sembra qualcosa di necessario e doveroso fare, si deve fare fatica, e se ne fa tanta, si devono conquistare questi luoghi dove è ancora possibile lavorare in questo modo.

[Da luogo di “lusso” a luogo di “resistenza”. Non a caso oggi l’Italia non è un paese felice per chi fa teatro e più in generale si occupa d’arte.]
(Fiorenza) E non sappiamo neanche cosa ci aspetta. 

[Secondo te qual è il ruolo dell* artist* nella società?]
(Fiorenza) Sto studiando Carla Lonzi in questo periodo e non riesco a togliermi dalla testa la sua visione sull’arte - un ambito troppo compromesso con il patriarcato che si fa fatica a superare. E così è l’idea di “artista”, dobbiamo pensare a un orizzonte collettivo.

Non amo mettere l’artista in una posizione diversa, per me è uno stare nella vita come una qualsiasi altra persona sta nella vita.
Mi spiego: Ateliersi è qualcosa che faccio con Andrea, che è un compagno d’arte, ma faccio anche con Greta che è l’amministratrice; costruiamo la stessa cosa. Sì, è vero, il nostro contenuto è la creazione e la creazione è il luogo del discorso alternativo, della ricerca, del linguaggio, dell’accoglienza, perché sempre di più deve esserlo, ma questo lo si fa a tutti i livelli e con tutte le persone che ci lavorano. È necessario.

Ci chiamiamo “collettivo”; non amiamo le differenze.

L’arte per me è un luogo, è qualcosa che tutte le persone hanno in potenza e tutte le persone possono comprendere. Si dice che ci si avvicina all’arte; secondo me ci si allontana dall’arte. Alcune persone per la loro storia o per altri motivi scelgono di allontanarsi.



[Parliamo di “Freedom Has Many Forms”: di cosa si tratta e cosa è importante sapere?]
(Fiorenza) Questo lavoro è nato alcuni anni fa, nel 2015, in maniera parallela a un altro progetto sul tema delle scritte “Boia-concerto breve per imbrattamenti, voce e sintetizzatori”.

A un certo punto, trovavo divertente l’idea di creare una sorta di pata-lezione o pata-convegno utilizzando il materiale che avevo raccolto, ma non ero la persona adatta per farlo, non avevo lo spirito creativo e di scrittura di cui questo progetto aveva bisogno. Quindi, ho pensato ad Andrea e gli ho chiesto: “Avresti voglia di co-scrivere questo lavoro?” In realtà altro che co-scrivere… Andrea ne ha poi fatto una sua ricerca grandissima!

(Andrea) Come diceva Fiorenza, si tratta di un progetto nato a Bologna nel 2015, che comprendeva più parti (ndr - “Urban Spray Lexicon” è un progetto composto da tre capitoli: “Boia”, “Se la mia pelle vuoi” e “Freedom Has Many Forms”). “Freedom Has Many Forms” è una lecture-performance nella quale, in maniera antiaccademica e nell’arco di un’ora, innesco una sorta di diaporama partendo dalle scritte sui muri, che racconto o commento con aneddoti, storie e curiosità. Utilizzo frammenti di film che racchiudono una serie di argomenti collegati alle scritte, ma anche fotografie, libri e brani musicali.

Fiorenza, appunto, mi aveva proposto di occuparmene, ho accettato e da quando ho iniziato non mi sono più fermato… Diciamo che sia il progetto sia la struttura in sé del lavoro si prestano a un costante aggiornamento, tanto che il mio personale rapporto con le scritte non si è più interrotto da allora. È una costante ricerca. E un continuo inviarsi scritte! Magari scopriamo cose nuove, o accadono cose nuove che presentano maggiore forza e meritano di essere condivise con il pubblico. Quindi il lavoro cambia e si aggiorna.

È un progetto che amo tantissimo, e forse anche il più longevo perché non si conclude, non si ferma.

[Vedo che ti diverti molto anche solo a raccontarlo. Cosa ti aggancia di questo lavoro?]
(Andrea) Le scritte sui muri testimoniano tutto ciò che accade. Per me sono un indicatore di vivacità e di consapevolezza degli abitanti di una città; la presenza delle scritte ti restituisce l’idea dell’aria che tira in una città - quanto è abitata, quale consapevolezza c’è... Perché le scritte possono essere di matrice diversa, dalle più semplici, come quelle calcistiche, a quelle a tematica amorosa, filosofica, esistenziale o politica: hai la possibilità di confrontarti con diverse sfaccettature del pensiero. Inoltre, si crea sempre un gioco di strane connessioni, come quando cammini per strada, alzi lo sguardo e ti cade l’occhio su una scritta che, non si sa mai perché, ha una relazione specifica con quello che stai vivendo in quel determinato periodo o con delle cose che ti stanno accadendo - mi diverte molto questa cosa.

[Se le scritte sui muri trasformano le città in uno spazio scenico, cosa ci stanno raccontando oggi? Per esempio, cosa dice Bologna?]
(Fiorenza) Bologna in questo momento, sui muri, è esplosa! Un’esplosione che si nota anche nelle dimensioni dei caratteri e nei posizionamenti delle scritte. La zona universitaria è pazzesca, piena di scritte esistenziali e politiche. E dicono cosa si vuole: non si vogliono i confini, si vogliono aiutare le persone, accogliere le persone, non si vuole la guerra, si vuole la Palestina libera, non si vuole Salvini, si vogliono i gattini ma non Salvini…

(Andrea) E qui mi collego a un’altra questione che riguarda “Freedom Has Many Forms”: le scritte sono un oggetto volatile, perché compaiono ma scompaiono con altrettanta velocità, specialmente quando sono scritte di accusa, che indispongono puntando il dito e allora ecco che per la città è meglio farle scomparire perché potrebbero causare agitazione.
Sul ponte della stazione di Bologna ho avuto la fortuna di fotografare la frase “Chi vuole morire per la patria lo faccia in fretta”. Sarà durata cinque giorni. Tosta. Ma reale.





A cura di Invisible°Show con la collaborazione di Gabriele Cerati.

[Suoni il rullante e basta. Una forma che sembra l’estrema conseguenza di  un percorso che riduce a zero la possibilità di definire la musica stessa. Dimmi di più!]

Sicuramente c’è il tentativo di rompere alcuni schemi, che è necessario per fare le cose in modo diverso, in modo nuovo, e che desti sorpresa. Nel mio caso l’obiettivo è ancora più ambizioso: generare una sorta di “shock acustico” nelle persone che vengono ad ascoltarmi.

[Credi che gli spettatori ti considerino un performer, un artista concettuale, un attore su un palcoscenico o un musicista? Credi che il tuo pubblico ascolti veramente ciò che stai suonando?]

Non mi definirei mai un performer perché la mia priorità è il suono e quello che tento di fare è “musica improvvisata”. Quando sto suonando mi chiedo: come faccio la prossima frase? Come sviluppo il brano? Non mi interesso all’apparenza, a come sembrerò nei prossimi cinque minuti di performance che mi servono per raggiungere quel determinato suono. Certamente c’è anche un aspetto corporeo, ma per me non è altro che un passaggio obbligato per raggiungere quel timbro o un certo ritmo; non è un obiettivo della performance.

Alcune persone vengono a sentirmi e chiudono gli occhi per ascoltare meglio. Ci sta, in effetti è quello che faccio anche io: immagino la musica e non me la dimentico più. Nasce nella mia mente e poi faccio quello che serve per farla arrivare alle bacchette, al rullante e al tavolo su cui poggia il rullante.

[Come ti fanno sentire le reazioni del pubblico? Come accogli il fatto che qualcuno possa ridere?]

Capisco benissimo che qualcuno rida alle mie esibizioni. Specialmente se non mi conosci, mi vedi e pensi “questo è solo un tipo strano”. Lo comprendo perché suono la batteria in un modo completamente diverso, come non è mai stato fatto prima. In Italia però mi è capitato di percepire, in generale, una maggiore serietà nei miei confronti: ho trovato persone di mentalità molto aperta e creativa e mi sono sentito preso molto sul serio.

[Le emozioni che provi quando ti esibisci cambiano ciò che stai per suonare? E, allo stesso tempo, suonare trasforma il tuo stato emotivo?]

Quando inizio a suonare vado fuori controllo e quindi non so dove sto andando o cosa provo. Questo mi sorprende ogni volta. Se prima di iniziare non sono nel mood, so che una volta impugnate le bacchette andrò sicuramente fuori controllo. Anche se fino a cinque minuti prima non me la sentivo di suonare. Parto e, una volta finito, non so dire come sia andata o cosa mi abbia attraversato. 

[John Cage prendeva ispirazione tanto dall’I-Ching quanto dalla televisione per la scrittura delle sue opere musicali. Parlaci dei tuoi riferimenti più insoliti!]

Anche io sono influenzato da molte cose, come gli anime o i video in genere. Ma sicuramente non dalla musica - non mi ispiro alla musica. Non ascolto mai musica per fare musica. Mi faccio ispirare dal silenzio e quindi dai suoni naturali circostanti e che si insinuano nel silenzio. Questo perché so che se ascolterò jazz farò jazz, se ascolterò rock farò rock, e così via. La musica degli altri darà una direzione alla mia. Voglio invece la neutralità, e mi sembra naturale che sia così. Allo stesso modo, quando suono in giro lo faccio da solo e rimango da solo, e dentro di me penso alla musica e parlo con me stesso di musica. Per quanto difficile possa essere, mi sembra un modo efficace per fare le cose diversamente. 

[La tua ricerca è un’esplorazione della voce come veicolo di incontro e metamorfosi. Perché proprio la voce?]
Il mio lavoro è un’esplorazione della voce e del linguaggio, un interesse che per me deriva dal fatto che 15 anni fa ero cantante e musicista - suonavo anche la fisarmonica. Mi interessavano i canti popolari e ho studiato i canti yiddish dell’Europa centrale e quelli del Salento italiano – per alcuni mesi ho vissuto a Lecce. Per me non era possibile cantare senza apprendere il linguaggio o passare del tempo con la comunità a cui quei canti appartenevano - è un po’ come conoscerne la cultura.

Quindi, il canto è diventato un modo per incontrare, un modo di pensare la mia posizione e la mia legittimità. Posso considerare la mia pratica attuale come una sorta di estensione di quel periodo: usare la voce mi permette di incontrare e di interessarmi sempre al linguaggio, al modo di essere di una comunità – umana o non umana.


[Il canto ti permette quindi di diventare parte di una comunità? In un certo senso di “parlare la stessa lingua”?]

È interessante questo, ma io resto sempre una straniera, quindi questo aggiunge altre domande riguardo alla metamorfosi e alla nozione di ibridazione che per me è molto importante. Perché appunto, non sono nata in Salento, non sono ebrea e non sono un uccello, per esempio.

Ovviamente il canto e la musica sono strumenti per incontrare una comunità e creano un legame molto forte ma il mio lavoro è su questa “terza zona” che sta tra me e loro, tra me e te, è la porosità tra due entità; è questo che mi interessa e come l’incontro ti trasforma.

Diventi altro quando incontri veramente qualcuno. Che sia una persona, un animale, un ambiente o un’entità, c’è un’intensità di relazione che fa sì che tu cambi e su questo aspetto, con la mia voce, provo a esprimere quello che Deleuze chiamava “devenir”: non sai più se sei tu o se ti stai confondendo con l’altro.

Hybird, performance, 30 min, 2017 © Valérie Sonnier.

“La voce è un meraviglioso mezzo di metamorfosi; si pensi ai cacciatori che attirano le loro prede con la voce, a quella comunità di YouTuber che riproduce il suono dei motori delle auto da corsa, o ancora ai "joiks" (canti) sami che restituiscono la presenza del vento, della montagna, di determinati animali... In un solo gesto, senza maschere, la voce consente di diventare simbolicamente un altro, o meglio, molti altri: è un accesso al molteplice.”

[Da un bellissimo carteggio incrociato tra Bruno Latour, Nastassja Martin e Violaine Lochu]

[Siamo nell’ambito della filosofia, il concetto di “terza zona” mi ricorda anche il concetto di “confine di contatto” nella psicoterapia contemporanea. Noto che la tua ricerca tocca molti aspetti della filosofia e delle scienze psicologiche.]

Sì, è vero, per me sono un’ispirazione. Lavoro spesso con ricercatori e ricercatrici, per esempio ho lavorato con la filosofa delle scienze Vinciane Despret e con l’antropologa Nastassja Martin, e mi interessa la psicologia, soprattutto la psicanalisi - ho studiato Lacan.

[Quando parli di metamorfosi cosa intendi?]

Intendo il divenire qualcos’altro che per me è anche uno stato vicino alla trance o all’ipnosi, uno stato di coscienza alterata: è quello che vivo durante la performance; una condizione speciale che per me coincide con l’essere performer e che consiste nell’andare a cercare quella “terza zona” tra la voce dell’altro e la mia.

[C’è un lavoro particolare che fai su di te prima di una performance, affinché tu possa ricercare questa condizione?]

Mi sa che è sempre stato così. A un certo punto ho capito di non essere molto normale… Ah ah ah!
Ho sempre fatto improvvisazione ma ho capito che non era scontato quello che facevo solo quando ho cominciato a studiare e i miei professori mi hanno fatto notare che avevo questa presenza, come dire, intensa.

È qualcosa simile alla meditazione per me: essere lì, nel presente, e accogliere sia ciò che è dentro di me sia ciò che sta attorno a me. Per me è stato piuttosto il percorso inverso, perché essendo qualcosa che faccio da sempre, a un certo punto ho dovuto trovare le parole adatte per tradurlo, per esprimere alle altre persone come mi sento quando performo.

[“Babel Babel” mi ricorda il lavoro dello psicoanalista e psichiatra Daniel Stern sull’esperienza dei primi anni di vita del bambino, in cui i bisogni come la fame, la sete, il piacere, il fastidio emergono in maniera dirompente e vengono espressi attraverso la voce. Che ruolo hanno le tue emozioni in questa performance?]
“Babel Babel” è una performance che ho realizzato nel 2019. Per un anno ho frequentato alcuni asili e in uno di questi che si trova dove abito, a Seine-Saint-Denis vicino a Parigi, ho osservato il legame tra i bambini e il personale dell’asilo, e ho registrato il balbettio dei bambini.

In questa performance la mia ricerca è molto simile a quello che hai detto: nei primi mesi di vita il bambino ha solo l’emozione della sua voce per comunicare, quindi tutto è estremo. La tristezza è estrema, il pianto per la fame diventa infernale, tutto è un dolore o una gioia.

In “Babel Babel” non provo a imitare, perché non avrebbe senso - non sono una bambina - ma cerco quella voce infantile dentro di me, una metamorfosi in cui “imitare” significa piuttosto cercare il bimbo e accoglierlo. Ho ascoltato molti bambini e anche io lo sono stata; c’è un accesso nel tuo corpo che ti permette di connetterti a questa parte di te.

[Che ruolo ha Il pubblico nelle tue performance?]

Il pubblico ha sempre un ruolo importante, poi dipende sempre da come è impostata la performance. “Babel Babel” per esempio ha un’impostazione classica, il pubblico è attorno a me e mi piace che le persone mi siano molto vicine. In questo caso non avviene un’interazione fisica diretta ma, allo stesso tempo, non è mai accaduto che qualcuno restasse neutrale davanti a questa mia performance.

Spesso le persone provano disagio, accade che qualcuno rida o pianga, le persone si sentono toccate in una reazione da voce a corpo e da corpo a corpo.

Altre performance, invece, hanno un’impostazione diversa. Per esempio in “Echotopia”, che ho fatto a settembre del 2023 al Padiglione francese della Biennale di Venezia, per una settimana, il pubblico partecipava in maniera diretta. Le persone venivano  invitate a stendersi, a porsi in una condizione vicina alla meditazione e poi a descrivere ai performer uno spazio – un ambiente – con cui avevano avuto un legame forte. Il risultato era un canto “ecotopico”: una sorta di traduzione della relazione delle persone con il loro ambiente.

In altre occasioni lavoro in gruppo, con persone che non sono performer, per esempio anche con la performance collettiva “Babel Babel” ho trascorso del tempo con il personale dell’asilo, che ha partecipato agli workshop e in questo caso le persone stesse sono diventate performer.

[Nei tuoi lavori utilizzi diversi media, oltre alla performance.]
Diciamo che parto sempre da una sensazione, da un’intuizione, che mi arriva perché sono immersa in un contesto particolare e che poi prende forma. La performance è la parte centrale del lavoro, il nervo centrale del sistema, a volte c’è un lavoro grafico, una partitura grafica – che può essere un libro o dei tessuti, in “Echotopia” era sui vestiti dei performer – e poi c’è una parte sonora - a volte utilizzo delle installazioni immersive con le voci delle persone o la mia stessa voce. Tutto questo – video, performance, disegni, suoni – è sempre collegato.

[In che modo sei arrivato alla performance?]
Sono arrivato alla performance perché per anni - per 5 anni - ho gestito un locale insieme ad altri amici: si chiamava Btomic, organizzavamo live di artisti che si esibivano soprattutto in solo, molto particolari… Dalla scena berlinese alla scena americana sperimentale. Un locale che ha prodotto un sacco di roba di una cultura che sta sparendo, quella underground, e che io sostengo fino alla morte perché è quella in cui sono nato, quando ancora i centri sociali facevano questo tipo di controcultura. La mia storia è questa.

Tutto quello che accadeva al Btomic veniva documentato; una specie di archivio. Abbiamo cominciato a produrre foto, video, interviste… Faccio un giro lungo per farti capire che dopo tutto questo percorso, nel 2016, mi è venuta la voglia – un’esigenza che mi è stata trasmessa da tutti gli artisti che sono passati da lì in quegli anni – di salire sul palco. E l’unico modo per farlo, per me, era con la fotografia. Così ho proposto ai Kinkaleri di studiare una performance dove la fotografia potesse permettermi di entrare. E da lì ho cominciato.

Ora, come artista, la fotografia è soprattutto il mezzo che utilizzo nelle performance, nel mio lavoro in studio la uso meno, ma nella performance è basilare. Entro fotografo ed esco performer – anche se non mi sento “performer”.

[Possiamo dire che è un modo diverso di fare fotografia? L’hai portata in mezzo alle persone.]
Quello che più mi attraeva era il contatto con il pubblico, il fatto che il pubblico diventasse proprio la storia, la drammaturgia. Alla fine quello che accade, è un tentativo di performance: io non riesco a fare delle prove, cado – come diceva Trisha Brown “Anche cadere è danzare” – e succede qualcosa. Mi muovo e succede qualcosa. Però non lo controllo, è dettato da tutto quello che mi accade intorno. Posso dire che il pubblico diventa proprio la performance; io coinvolgo il pubblico ma è lui – loro – che diventa, anche nella stessa fotografia di documentazione, parte integrante della performance – fondamentale.

ph. JB 2023


[Che effetto ti fa il pubblico?]
La cosa assurda è che non riesco a pensarci… Quando facevo le prime performance, con le proiezioni in tempo reale, suonando il microfono sul corpo e campionando, manco guardavo il pubblico perché mi terrorizzava.
Adesso provo amore e odio: mi viene voglia di spingere a me le persone, di abbracciarle, ma anche di allontanarle. Sai, Io non vado più nei locali, non vado in mezzo al casino – non sopporto più la gente – però quando faccio una performance diventa un momento intimo con chi partecipa. Per questo non voglio farle nei club: voglio avere un pubblico che è lì per partecipare a un’azione fisica, non per ascoltare della musica. 


C’è la fotografia oltre all’azione, certo, ma è una fotografia diversa, è documentazione. La cosa che trovo interessante è che durante le performance mi “clono”: affido la macchina fotografica a un’altra persona; io comunico con la fotografia anche attraverso persone che mi fotografano e fanno il mio lavoro. Così io divento anche parte del pubblico… È interessante, perché un fotografo non abbandona mai la macchina, invece io scatto attraverso altre persone ma il lavoro è mio, lo scatto non appartiene a loro. 

Mi rendo conto che alla fine, la fotografia, la utilizzo solo durante le performance. Cerco di nascondermi sempre di più, come se non volessi far vedere l’immagine che produco ma riesco a mostrarla attraverso la restituzione editoriale della performance – il mio è anche un lavoro editoriale – con una ventina di foto, video e magari anche la registrazione dell’audio quando c’è. Anche da voi, per esempio, ho coinvolto Michele Lombardelli con cui sto lavorando, che introdurrà dei suoni o campionerà i miei; volevo impreziosire questa performance di “musica andalfabeta” con dei suoni - sono degli elementi che mi danno sicurezza.

[Mi piace che dici che i suoni ti danno sicurezza.Quanto è importante per te la musica?]
È importantissima. Ho amato la musica fin da ragazzino, avrei anche voluto suonare ma non ho mai avuto il coraggio di salire su un palco – fino a 47 anni. La musica per me è fondamentale ma non deve essere una gabbia… Mi spiego: quando vai a un concerto così come quando fai una performance, hai i tuoi riferimenti che ti influenzano. Nella performance ho eliminato tutti i miei riferimenti, perché voglio un suono “analfabeta”; un suono senza controllo – senza nessun riferimento. Che non significa “improvvisato”, è diverso: è un suono che nasce dall’errore.

Tutto il mio lavoro viene non dallo studio ma da un incidente. Proprio perché nel mio percorso ho capito che tutto quello che faccio è basato sull’imperfezione; ho perfezionato l’imperfezione. Ed è così nelle fotografie, nelle performance, nelle cornici… Che non vuol dire fare un lavoro fatto male apposta: per me questa imperfezione significa lasciarmi andare così come sono – essere me stesso. Ogni volta che vedevo qualcosa che mi colpiva mi lasciavo influenzare, provavo a essere quello che non sono e non funzionava. Adesso mi sento libero: mi baso su di me e sulla mia imperfezione, anche fisica (come cammino, come suono…) e la esalto al massimo. Devo solo stare lì, senza spaventarmi, sicuro di quello che non so fare – speriamo che non ci sia un dottore qua dentro, ecco… Ah ah ah!

[Perchè dici “di non spaventarmi”. C’è un aspetto che ti spaventa?]
No… A questo punto non c’è più niente che mi spaventa. Il pubblico può spaventarsi se si aspetta qualcosa. Io mi sono lasciato andare e ho lavorato su quello che sono veramente: una persona imperfetta in tutto quello che faccio, anche nella fotografia stessa – le mie foto non sono belle, sono coerenti.

[Cos’è che ti colpisce delle persone che fotografi durante le tue performance?]

L’attenzione, la cosa più bella delle foto delle performance è quando la gente ti guarda, ti oltrepassa. Uno sguardo che ti prende ed entra dentro di te. Questa cosa è bellissima. È “A me gli occhi”. Anche per questo non voglio che ci siano cellulari, creano una distrazione e diventa una documentazione, distolgono... Voglio l’attenzione dalle persone che stanno lavorando con me. Assorte, spaventate, concentrate su quello che sta succedendo.

[Cosa chiedi al pubblico con il tuo lavoro?]

Chiedo attenzione, senza aspettative. Chiedo che le persone siano loro stesse, ma non sempre succede e questa è l’imprevedibilità delle azioni. Anzi, io spero sempre che accada qualcosa di imprevedibile. Non sopporto le situazioni in cui il pubblico è passivo, seduto, non riuscirei mai… Mi piace che io e il pubblico siamo sullo stesso piano. La vera performance è la reazione nel pubblico, quello che poi vedo nelle foto: questa per me è l’azione perché le persone sono in una posizione che io ho creato.

[Come immagini il tuo lavoro in futuro?]
Il mio lavoro cambia in base a come sono io in quel momento. È un po’ come documentare la mia vita. 

[Non esiste una separazione tra te, come individuo, con le tue caratteristiche, e il tuo lavoro.]
No, sono me stesso, anzi, lo sono sempre di più. Non c’è Jacopo Benassi che fa le foto o che fa le performance; è un tutt’uno. Sono un’artista e una persona che ha esaltato la sua imperfezione. Non correggo i miei errori: io sono un grande errore, uno spettacolare errore.

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