Curated by Invisible°Show
[Why did you choose the name "Putan Club" and what does it mean to you today?]
It was originally a temporary name, born during a night drive near Namur, Belgium, after a concert. We saw a sign that said "ButanGas" and jokingly came up with "Putan Club." It was meant to last just six months, deliberately provocative, a bit punk. Now it has taken on a more serious meaning, recalling the resistance of Vietnamese prostitutes during the war. It's challenging to carry, often mistaken for "Putin Club" in Russia, which initially annoyed us but now amuses us.
[David Lynch once said in an interview, "If I want to send a message, I'll go to the post office." Does your project carry a message?]
We weren't born to explicitly send messages, but inevitably, the way we live and work becomes political. In our lyrics, we are concise and avoid easy rhetoric. Traveling extensively, we encounter realities that deeply affect us, like the massacres of Uyghurs or Europe's tense situation. However, our strongest message is in how we structure our lives and work: autonomous, independent, free from agencies, promotions, and obligations of the music market. We manage to make a living from it, paying rent and bills, which is our real success. It's not self-destruction; it's continuous discovery and personal rebirth.
[You’ve played thousands of concerts yet released very few albums: why this choice?]
The true dimension of Putan Club is live performance, not records. No recording can truly capture the madness, intensity, and energy of a live show. Few albums, often live recordings, signal our constant evolution and a clear rejection of the stagnant music market that repeatedly recycles the same things. Each concert is unique, unrepeatable, and this uniqueness interests us more than any record. We recently released a new album recorded live, symbolically marking the end of a phase and hinting at new musical directions.
[How do you experience the constant traveling and performing in remote, lesser-known locations?]
Constant traveling is essential and revitalizing for us, though it might seem like a form of escape from routine and a stable life. It is not self-destructive; rather, it's ongoing personal growth, meeting new people, gaining new experiences, and continuously learning. Recording and documenting these travels have become fundamental: we collect hundreds of hours of material, footage, and audio recordings of local musical rituals, leaving them freely accessible to cultural archives or ministries of the countries we visit. Performing in remote locations allows us to discover and engage with often invisible communities, giving them a voice and
creating authentic, meaningful relationships. At the same time, we cherish returning to familiar places, such as our base in France or in Salento, Puglia. This return is just as important as departure itself.
[What are your influences? Do you identify yourselves as Italian or French artists in any way?]
We don't have a specific musical affiliation. Ethnomusicology and our constant travels lead us to blend everything: jazz, death metal, punk hardcore, contemporary classical. We impose no genre limitations. We truly claim to have no musical "church." What genuinely moves us is authenticity, the "duende" of the gypsies. We seek that genuine dimension, without worrying about its origin.
[In your concerts, you reject traditional stages: what meaning does this choice hold for you?]
For us, the stage represents an unnecessary distance, an outdated sanctity we prefer to avoid. We choose to immerse ourselves directly into the audience to create a true collective experience, a physical ritual. This direct contact eliminates any barrier between artist and audience. For us, the concert is this: a dimension of complete authenticity and wildness.
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A cura di Invisible°Show
[Perché avete scelto il nome "Putan Club" e cosa significa oggi per voi?]
Era un nome provvisorio nato durante un viaggio notturno vicino a Namur, in Belgio, dopo un concerto. Abbiamo visto un cartello con scritto ButanGas e per gioco uscì "Putan Club". Doveva durare sei mesi, era volutamente provocatorio, un po' punk. Adesso forse ha un significato più serio, ricordando la resistenza delle prostitute vietnamite durante la guerra. È difficile da portare, spesso in Russia lo scambiano per "Putin Club" e inizialmente era irritante, ora invece ci diverte.
[David Lynch in un'intervista disse “se devo mandare un messaggio vado in posta”. Il vostro progetto ha un messaggio?]
Non siamo nati per trasmettere messaggi espliciti, però inevitabilmente il modo in cui viviamo e lavoriamo diventa politico. Nei testi siamo lapidari, evitiamo retoriche facili. Viaggiando tanto vediamo cose che ci toccano profondamente, come i massacri degli Uiguri o la situazione tesa in Europa. Il messaggio più forte, però, è nel modo in cui organizziamo la nostra vita e il nostro lavoro: autonomi, indipendenti, liberi da agenzie, promozioni e obblighi del mercato musicale. Riusciamo a viverne, paghiamo gli affitti e le bollette con quello che facciamo, e questo è il vero successo per noi. Non è autodistruzione, ma una continua scoperta e rinascita personale.
[Avete fatto migliaia di concerti e inciso pochissimi album: perché questa scelta?]
La dimensione vera del Putan Club è il concerto, non il disco. Nessuna registrazione può catturare davvero la follia, l'intensità e l'energia del live. Pochi dischi e spesso dal vivo per noi significano soprattutto un segnale di continuo cambiamento e una presa di distanza dalla staticità del mercato musicale, che ripete sempre le stesse cose. Ogni concerto è unico, irripetibile, e questa unicità ci interessa più di qualunque disco. Recentemente è uscito un nuovo album, registrato dal vivo, che segna per noi simbolicamente la fine di una fase e anticipa nuove direzioni musicali.
[Come vivete il continuo viaggiare e suonare in luoghi remoti, spesso poco conosciuti?]
Viaggiare continuamente è per noi essenziale e rigenerante, anche se può sembrare una forma di fuga dalla routine e da una vita più stabile. Non è autodistruzione, al contrario, rappresenta una crescita personale continua, una possibilità di incontrare nuove persone, fare esperienze diverse e imparare costantemente. Registrare e documentare questi viaggi è diventato fondamentale: raccogliamo centinaia di ore di materiale, filmati e registrazioni audio di rituali musicali locali, che lasciamo gratuitamente agli archivi culturali o ai ministeri dei paesi che visitiamo. Suonare in luoghi remoti ci permette di scoprire e interagire con realtà spesso invisibili, offrendo una voce a comunità marginalizzate e creando reti di relazioni autentiche e significative. Al tempo stesso, amiamo anche il ritorno ai luoghi familiari, come la nostra base in Francia o il Salento, in Puglia. Questo ritorno rappresenta un momento importante quanto la partenza stessa.
[Quali sono le vostre influenze? Vi riconoscete in qualche modo come artisti italiani o francesi?]
Non abbiamo un'appartenenza musicale precisa. L'etnomusicologia e i nostri continui viaggi ci portano a mischiare tutto: jazz, death metal, punk hardcore, classica contemporanea. Non ci poniamo limiti di genere. Rivendichiamo veramente di essere senza chiesa musicale. Quello che ci colpisce veramente è l'autenticità, il "duende" dei gitani. Cerchiamo quella dimensione vera, senza chiederci da dove venga.
[Nei concerti rifiutate il palco tradizionale: che senso ha per voi questa scelta?]
Il palco rappresenta per noi una distanza eccessiva, ormai inutile, una sacralità che vogliamo evitare. Preferiamo immergerci direttamente nel pubblico per creare una vera esperienza collettiva, un rito fisico. Questo contatto diretto permette di superare ogni barriera tra artista e pubblico. Per noi il concerto è questo: una dimensione di totale autenticità e selvaggeria.
Ph. Lorenzo Esposito
Diana Lola Posani è una sound artist, performer vocale e facilitatrice di Deep Listening certificata dalla Deep Listening Foundation. Lavora sullo spazio comune tra suono e immaginario poetico, attraverso opere interdisciplinari e poesie sonore. Da anni porta avanti anche un lavoro di divulgazione sul significato dell’ascolto.
A Performatorio ha scelto di portare “Quando mi vidi non c’ero”, una solo performance che, prendendo in prestito il titolo di un’opera di Vincenzo Agnetti, indaga un conflitto con l’identità, che appare solo entrando in contatto con la sua assenza.
In una conversazione, abbiamo parlato della sua performance, del processo creativo e dei temi che esplora.
[Partiamo dalla performance che porterai al Performatorio, “Quando mi vidi non c’ero”: com’è nato questo lavoro?]
Il lavoro è nato da un’intuizione su delle texture sonore. Avevo notato come due suoni con una carica energetica completamente opposta, il respiro e l’urlo soffocato, in realtà avessero un’apparenza sonora molto simile. Sono partita da una fascinazione per le consistenze di questi due suoni, come potrebbe esserlo l’interesse di uno scultore per un materiale. Da un lato c’è la componente atmosferica del suono – simile a un drone – molto uniforme, dall’altro quella drammaturgico-narrativa, che invece subisce grandi variazioni: un distacco per me molto interessante.
[Quindi si tratta di un interesse che parte dall’ascolto?]
In questo caso sì. Forse anche perché dopo “Scream As If Your Organs Were Made of Glass” – solo in cui lavoravo su una vocalità estesa ed estrema, un suono che avevo sentito e che per me aveva un peso particolare – mi interessava ripartire da zero e dire: ok, qual è la mia prospettiva su suoni semplici?
Il nuovo lavoro, quindi, non si concentra sulla scoperta di un suono, ma di una nuova prospettiva nell’ascoltare. Mi sono chiesta quale fosse la mia prospettiva su un respiro o un urlo muto, suoni che conosco perché li ho già ascoltati - sono nelle mie orecchie.
[Mi hanno agganciata due cose che hai detto: hai parlato di peso e di suoni che sono già nelle orecchie. Mi domando che peso ha questo lavoro per te, quindi, come ti influenza?]
Per me ha una grande influenza, come tutte le mie azioni. Quando costruisco qualcosa, la mia bussola ha a che fare con la cura, o meglio con l’auto-cura. Un aspetto che spero possa estendersi anche al pubblico, ma parte come una ricerca personale, che risponde in modo intuitivo alla necessità di un preciso momento. A livello emotivo, accedere alla parte di me a cui rivolgo la cura è pesante, perché richiede una pratica costante anche nell’andare verso quelle zone d’ombra che nella quotidianità rimangono nascoste. È come dare voce a quelle parti di me che non possono parlare, alle quali, a livello cosciente, non riesco ad accedere. Il suono – non la parola – è una finestra, mi offre la possibilità di guardare attraverso e vedere cosa c’è nell’ombra.
[È interessante come l’arte spesso diventi una pratica di cura, di superamento o riscrittura di situazioni traumatiche, oppure di sopravvivenza.
Prima hai parlato anche di suoni che sono già nelle tue orecchie, che conosci: dimmi di più. Intendi che possiamo esprimere solo i suoni che abbiamo sentito?]
La voce utilizza solo le frequenze che possiamo sentire. Ciò significa che, per via del circuito audio-fonatorio, non riusciamo a produrre con la laringe qualcosa che non abbiamo mai ascoltato. Al massimo ci possiamo girare attorno, ma è un discorso complesso, come il legame tra il pensare e il parlare. Ci sono lingue che utilizzano parole specifiche per esprimere determinati concetti: ampliare il vocabolario significa anche ampliare la quantità di concetti. Se la parola adatta a esprimere un concetto non c’è, devi fare un giro attorno alla lingua per trovare il modo di comunicarlo. Qualcosa di simile, secondo me, avviene anche con i suoni.
Posso decidere quindi di partire da suoni che conosco – perché li ho sentiti e li trovo interessanti – e spingermi più in là, oppure da suoni che fanno parte della mia quotidianità. Io mi sono già sentita respirare o urlare soffocando la mia voce; sono suoni che posso spogliare dall’umano.
Mi ispira, per esempio, la differenza tra Meredith Monk e un grandissimo performer vocale come può essere Demetrio Stratos. Lui aveva un atteggiamento quasi scientifico nel produrre diplofonie o altre possibilità, spingeva la sua voce oltre i confini. Meredith Monk invece si definisce compositrice prima che performer vocale: può realizzare un’opera basandosi solo sul suono di una risata. E la questione non sta nella qualità della risata, ma nel modo in cui la utilizza per raccontare una prospettiva diversa su quel suono – e questo è ciò che mi interessa. È il tipo di ricerca che più mi risuona e riguarda gli immaginari che i suoni possono creare.
[Che relazione hai con il pubblico nelle tue performance?]
Il pubblico è il 50% della performance. È quella parte di energia che la completa. Fino a quando non porto una performance davanti al pubblico, non sono consapevole di cosa sia. La presenza del pubblico è potentissima. Non ho una formazione prettamente da performer, e non sono una persona che ama stare sul palco o al centro dell’attenzione. Quando lo faccio è perché con quel tipo di lavoro mi sento totalmente trasformata. Non mi sento più io. Se lo fossi, sarebbe un grandissimo problema.
Nel momento della performance accade qualcosa di magico. Quando arriva il pubblico è come se tutto si mescolasse per contribuire a questa trasformazione. È come se mi stessero aiutando. Ricordo, per esempio, che in “Scream As If Your Organs Were Made of Glass” iniziavo distesa a terra e, mentre arrivavano le persone, mi accorgevo che lo spazio si riempiva del silenzio necessario a entrare nello stato in uno stato di coscienza alterato. E da lì proveniva il mio suono.
[Oltre a Pauline Oliveros, quali sono le autrici e gli autori che hanno influenzato il tuo percorso?]
Pauline ormai è un angelo custode, oserei dire. Ma la prima persona che ha spalancato le porte di quello che è il mio processo è stata sicuramente Claudia Castellucci, che oltre a essere un’artista fenomenale è anche una bravissima insegnante, ed è andata a toccare proprio delle questioni grammaticali sul significato della rappresentazione che tutt’ora mi porto dietro.
Poi, di riferimenti ce ne sono tantissimi. In questo momento mi sto nutrendo molto di musica contemporanea, per esempio Giorgio Netti. Altri riferimenti arrivano dal mondo dell’arte, come la scultrice Christiane Löhr, ma in realtà le persone che più mi hanno nutrita sono state le mie colleghe. Come Clara Levy, violinista che ha scritto un album meraviglioso basato, tra l’altro, su delle score di Pauline e dei frammenti di Ildegarda di Bingen. Oppure Inês Água, sound artist che arriva da un percorso come scultrice. E Janneke van der Putten, performer vocale e cara amica, che ha lavorato tantissimo con il canto Dhrupad indiano. Tutte donne, colleghe e coetanee che hanno arricchito il mio percorso.
[Hai citato più volte la scultura. C’è qualche affinità tra la scultura e la tua pratica?]
Per certi versi credo che la scultura sia l’ambito artistico che sento più vicino, a volte anche più di quello puramente musicale.
Spesso baso le mie composizioni all’interno non tanto su rapporti di tipo musicale, nel senso tradizionale del termine, ma su azioni vocali che acquisiscono materialità e, in questo senso, nel tempo, è come se questo materiale cambiasse forma, influenzato dalle variazioni. Nella mia mente, la scultura è proprio la cosa che più somiglia al mio approccio.
Quando canto, non visualizzo i suoni come se fossero una partitura grafica, o men che meno una partitura tradizionale, ma come se sentissi interamente – con il sistema voce-corpo – delle qualità materiche. Può essere quella della sabbia leggera per un certo tipo di respiro, o il determinato peso e colore di un growl. È come se i suoni diventassero oggetti.
[Prima hai parlato di cura e auto-cura, ma ci sono anche delle tematiche intrinseche ricorrenti nel tuo lavoro?]
Sì, sicuramente c’è l’auto-cura e le tematiche da cui deriva, ma anche il distacco tra voce e corpo, che può essere reale o percepito. Il non riuscire ad abitare la propria voce.
“Quando mi vidi non c’ero” è la prima performance in cui espiro invece di inspirare, ma la quantità di suono è minima. La maggior parte del suono percepito infatti è aria – quasi la voce non c’è, e quando tenta di uscire è un urlo soffocato. Eppure io lavoro con la voce, ma nelle mie performance il rapporto con l’idea di dare spazio alla mia voce è molto conflittuale.
Un altro tema è legato alla possibilità di rappresentare ciò che abita l’umano con un altro linguaggio, quindi non tanto rappresentare l’umano in sé… Parlo molto di umano, certo, perché spesso attraverso stati dell’infanzia o questioni autobiografiche che poi non mi interessa dichiarare. Ma ci torno in modo impersonale, o meglio: è personale perché lo faccio con il mio corpo, impersonale perché non mi interessa reinterpretare la mia storia…
[Quando ritieni che un tuo lavoro sia finito?]
Ho una approccio molto istintivo, poco concettuale e molto pratico. Sento il bisogno di andare in una direzione, quindi provo a cantare per vedere se si crea quella bolla, quel distacco dal reale che mi permette di entrare nella zona d’ombra. È come provare una medicina per capire se è quella giusta. Poi, che sia quella giusta, lo capisco solo a posteriori.
Nelle performance compio delle scelte che porto avanti fino a quando ne capisco il senso. Funzionano finché esprimono qualcosa di me che è ancora incomprensibile; quando poi lo comprendo, allora vuol dire che quella non è più la medicina giusta per me, che ho bisogno di altro. Nella prospettiva dell’autocura significa che la parte d’ombra su cui stavo lavorando emerge, viene alla luce, ed è integrata - non ha più bisogno di essere raccontata.
[Prima, parlando di non riuscire ad abitare la propria voce, mi sono ricordata dell’effetto che mi fa ascoltare i miei vocali. Orribile. Non ci devo pensare. Tu invece, che rapporto hai con la tua voce?]
Fino a pochi anni fa avevo un pessimo rapporto con la mia voce, e non solo quando l’ascoltavo. Ora posso dire di aver reintegrato la mia voce spontanea, questo anche grazie a un lavoro profondo di funzionalità vocale - una disciplina che deriva dal metodo Lichtenberger.
Ci sono varie questioni culturali per cui noi attribuiamo dei significati alla qualità della voce. Per esempio, il pitch alto lo interpretiamo come qualcosa di negativo perché associato al femminile; a livello evoluzionistico, gli animali più grossi avevano suoni più profondi… varie questioni.
Ma più che altro è qualcosa che riguarda l’identità. La nostra voce contiene molte informazioni sulla nostra identità: tutte quelle sul nostro corpo interno, su come stanno i nostri organi, le mucose, e anche quelle sulle nostre esperienze di vita - perché la nostra voce cambia a seconda di quello che ascoltiamo. Lì dentro c’è di tutto, addirittura le persone neurodivergenti hanno delle cadenze diverse. Dentro la nostra voce c’è l’identikit di chi siamo.
[Mi collego a questa tematica identitaria per arrivare al Deep Listening. Prima abbiamo parlato dell’integrazione tra voce e corpo, che è una prospettiva individuale. Nel Deep Listening invece la prospettiva si fa collettiva, lavorando sull’ascolto dell’ambiente, esatto? Dimmi di più!]
Se la pratica della funzionalità vocale è centrata sul lavoro identitario ma riferito a sé, chiuso, il Deep Listening esplora il suono in modo politico, superando la prospettiva individuale. Ti permette di comprendere i confini della tua identità espandendoli.
Più esplori la porosità tra te e il circostante, più i confini si dissolvono e più, in realtà, realizzi in modo profondo cosa sei rispetto a ciò che ti circonda. Il Deep Listening ti porta verso un senso di dissoluzione e compenetrazione, una percezione profonda, non facilmente descrivibile, di chi sei tu all’interno di una rete.
Pauline descriveva il Deep Listening come una healing practice che non richiede un’alfabetizzazione e che può essere seguita da chiunque: una trasversalità che ha un grande valore. Se svolto in maniera profonda, può dare degli spunti interessanti anche a chi si occupa di musica, ma non solo – fa bene a chiunque.
ALMARE Ph © Silvia Mangosio e Luca Vianello
Dalle caverne preistoriche alle sale da concerto, dalle radio familiari ai festival globali e fino agli spazi virtuali, il desiderio umano di condividere il suono, nelle sue molteplici forme, accompagna l’umanità. Da sempre.
Un fenomeno, il suono, e allo stesso tempo un punto di vista per attraversare pratiche e contesti differenti, per cogliere desideri e mutamenti culturali e sociali. In questo angolo di visuale risiede ALMARE, organizzazione di base a Torino con un focus di ricerca dedicato alle pratiche del contemporaneo che utilizzano il suono, appunto, come mezzo espressivo.
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Giulia Mengozzi e Amos Cappuccio per farci raccontare che effetto fa guardare il mondo da questa prospettiva.
[Partiamo dalle basi: chi è ALMARE e in quale ambito si muove?]
Amos: ALMARE nasce nel 2017 con l’idea di far incontrare il mondo dell’arte contemporanea con quello della musica. Avevamo riconosciuto in questa trasversalità un campo d’azione a cavallo dei due ambiti, che nello specifico riguardava gli strumenti della curatela.
Giulia: Negli anni, l’intento curatoriale ha preso anche altre forme, come nel caso di “Life Chronicles of Dorothea ïesj S.P.U.”, curato da Radio Papesse e supportato da Italian Council. Questo è un caso piuttosto peculiare, un lavoro autoriale che nasce da una sorta di frustrazione nei confronti dell’impossibilità di riuscire a portare avanti una ricerca teorica con tutti i crismi del caso. L’ambito di ricerca era così ampio che alla fine abbiamo pensato di creare una fiction.
[Un progetto che sfugge alle tassonomie, alle etichette che, come dice Giulia “sono necessarie per comunicare con l’esterno, assolvono alla necessità di chiarezza” ma non bastano. Non a caso, mi fa notare, si definiscono un’organizzazione, un termine che apre la strada all’interpretazione assumendo significati diversi a seconda del contesto.]
Amos: Quello che ci contraddistingue è proprio lo stare a metà, tra le cose.
[A proposito di classificazioni, qual è l’approccio al suono – “alle pratiche del contemporaneo che utilizzano il suono come mezzo espressivo” – che contraddistingue ALMARE?]
Amos: Il suono non è una categoria, per così dire (come potrebbero esserlo la musica o la danza, per provare a semplificare); il suono è un fenomeno.
Occuparsi di un fenomeno fa sì che le possibilità espressive, e di movimento tra i diversi formati, siano molto ampie. Possono comprendere un concerto, per esempio, ma anche il suono nel cinema o riflessioni sulla costruzione dell’immaginario collettivo relativo al suono, arrivando al soundscape delle città e quindi al modo in cui le viviamo.
Quello che tiene viva questa ricerca, in sostanza, il motivo per cui continuiamo a interessarci al suono è proprio la pluralità dei punti di osservazione, che ci permette di attraversare discipline diverse - artistiche, ma non necessariamente.
E poi c’è un altro aspetto, anzi due, molto personali. Il primo: il suono è quella cosa che ci concede di stare insieme ad altre decine o centinaia di persone in silenzio, senza parlare, ascoltando. Il che non è affatto banale. Poi, c’è l’aspetto che riguarda il modo in cui il suono si sviluppa nel tempo: mi affascina la costruzione nel tempo di oggetti astratti, il modo in cui vengono costruiti e organizzati.
[Cosa vi aggancia del lavoro di un artista: cos’è che guida le vostre scelte?]
Amos: Non c’è uno strumento formalizzato, ma abbiamo delle linee di ricerca. Una bussola che è dettata dal contesto, all’interno del quale ciò che ci attiva è la qualità artistica - quanto quella cosa ci colpisce quando la studiamo e ci entriamo. E l’idea stessa di “qualità artistica” varia sempre a seconda del progetto ma in generale è qualcosa che riguarda una sorta di “completezza” formale e di contenuto.
Per esempio, parlando di “Daytime Viewing”, ci ha mossi il desiderio di portare a
“Sound Quests” qualcosa di dimenticato - e forse neanche all’epoca del tutto compreso.
Giulia: È un’opera significativa perché il problema che affronta – la condizione della donna – non è ancora risolto, e ne parla in maniera trasversale.
Amos: Lo fa attraverso le canzoni. Il fatto di riuscire a farlo in questa forma è qualcosa di abbastanza unico.
Credo che nel tempo abbiamo sviluppato un’idea di completezza di intenti che per noi significa essere allo stesso tempo chiari nei contenuti, e riuscire a farlo in modo insolito - personale. Qualcosa di poco sentito e poco visto. In questo senso un lavoro è compiuto. Più andiamo avanti, più ci rendiamo conto anche che ci piace una modalità di esposizione del lavoro “generosa”: quei lavori che, pur parlando di prodotti culturali di nicchia, interagiscono con il pubblico su diversi livelli. Per esempio “Daytime Viewing” lo puoi anche ascoltare senza saperne nulla ma riesce comunque a comunicare – e questo è permesso dal fatto che segue determinati canoni, quelli del musical, e non ha paura di seguirli – oppure puoi andare a fondo e esplorare concetti come quello di sonnambulismo cognitivo di cui parla David Rosenboom. Due estremi.
[L'ascolto collettivo è sempre esistito, ha radici profonde nell’esistenza dell’umanità e con essa si è evoluto adattandosi ai cambiamenti culturali e tecnologici. In questo momento cosa state osservando? Come sta cambiando il modo in cui le persone si relazionano all’ascolto e in particolare al suono?]
Giulia: Ricordo quando, durante il lockdown, avevamo appena prodotto la versione pilot di “Life Chronicles” e il lavoro sembrava comunicare con una serie di fenomeni che si stavano verificando in quel momento… La prima cosa che mi viene in mente è la bolla di Clubhouse, che poi è finita com’è finita, e poi l’ormai consolidato estendersi del mercato del podcasting. Pur non essendo un podcast, Life Chronicles è pur sempre fondato sulla narrazione sonora, per cui ci venne chiesto, a proposito di narrazione orale, di scrivere un articolo a riguardo: “Clubhouse, i podcast e l’irresistibile ascesa della nuova oralità digitale”. Certo, con il senno del poi mi sembra tutto da riscrivere, ma credo che ci sia qualcosa che tutt’oggi fa ancora parte del nostro approccio.
Credo che si possano osservare diversi interessanti segnali di cambiamento: per esempio, molti grandi festival musicali si stanno dotando di sezioni del programma non prettamente musicali. La mia sensazione è che le persone stiano cominciando ad aprirsi alla possibilità di un ascolto condiviso diverso. Per dirla con una battuta: stare zitte per un’ora ascoltando qualcosa che non sia per forza un concerto.
[Ed è qualcosa di antico.]
Giulia: Esatto. Se fosse qui con noi la nostra amica Ilaria Gadenz, sono abbastanza sicura che menzionerebbe il fatto che le origini della radio riguardavano la collettività, quando di radio ce n’era solo una per famiglia e ci si trovava lì attorno ad ascoltare.
Una cosa che di recente mi ha colpito, per esempio, viaggiando un po’ più tra mainstream e argomenti più vicini a noi… alla cerimonia degli Oscar Daniel Blumberg, il compositore che ha vinto il premio per la miglior colonna sonora per “The Brutalist”, nei ringraziamenti ha menzionato il Café Oto, un locale storico di Londra dove quotidianamente passano tutti, dai musicisti più affermati a quelli emergenti. Se ti occupi di musica sperimentale, nel mondo, ci sono ottime possibilità che a un certo punto passerai per il programma del Café Oto di Dalston o che ci andrai ad ascoltare qualcosa. Ascoltando questo ringraziamento ho pensato a quanto è importante la presenza di luoghi dedicati all’ascolto collettivo, che possono avere un’influenza fortissima sulle pratiche di produzione - fino a che un giorno, all’improvviso, te li ritrovi agli Oscar. E questo ci dice come il confine della bolla a volte sia molto più poroso di quanto immaginiamo.
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Oggi il nucleo di ALMARE è composto da Giulia Mengozzi, Amos Cappuccio e Mattia Capelletti. I loro progetti sono su almare.xyz.
Curated by Invisible°Show
[What led you to create this duo?]
Arnaud: The name A_R_C_C comes from combining our names: A_R from me and c_c from Edouard, who actually performs under that moniker. I don’t use A_R as a solo name, but it felt like a natural combination. Regarding the project’s origins, we started by merging our solo setups, using the same equipment we had separately. At first, it was a very maximalist approach - lots of gear, a big table filled with equipment. Over time, we decided to refine our sound, focusing on a specific set of elements. For the past year and a half, we’ve been working with lights, which has shaped our performances into something unique compared to our other projects.
Édouard: For me, it all started when I saw Arnaud’s solo performance and really loved it. Not long after, we met, and I quickly asked if he would be interested in playing together. We both enjoyed it, and that’s how the project started—very simply and spontaneously.
[Can you describe the process behind choosing the instruments you use for A_R_C_C ? Where do these objects come from, and was there a particular method in selecting them?]
Édouard: The process involved a lot of trial and error, experimenting with different materials and sounds. Over time, we found that lights could produce interesting sonic results. At first, we used random lights we found in stores, experimenting to see what sounds they could make and how they interacted with our setup. Eventually, we collaborated with a synth builder, who helped us develop a dedicated light-based instrument—a kind of modulated light synthesizer designed specifically for our project.
Arnaud: During the COVID-19 pandemic, we were invited to play in Germany, and that period made us reconsider our approach. We spent time exploring new directions, particularly focusing on the performative aspects of electronic music - not just turning knobs, but considering the visual and theatrical elements.
For example, during that period, we requested the longest table possible – two or three meters long – and placed it close to the audience. This setup forced the audience to choose whom to watch, as they couldn’t see both of us at the same time. That’s when lights became an obvious focus for us. The more we explored performative elements, the more we saw that light itself could be the core of our work.
[Your 2019 album Consensus & Compromis includes audience voices. How do you incorporate audience interaction into your work?]
Arnaud: We consider ourselves live musicians. We don’t just play electronic music; we actively engage with the audience. We often perform in the middle of the room, as close to the audience as possible, making sure they don’t just hear the music but also see the interactions and gestures that shape the performance.
Édouard: We’re definitely more focused on live performance than studio recordings. Improvisation is a key part of our process, and for both of us, playing live feels much more natural than composing in a studio. Even our tapes are collages of live recordings. Most of the recordings we have, even unreleased ones, come from live performances.
[You play in various venues, from clubs and punk spaces to more artsy performance places. Is there an ideal setting for A_R_C_C, or do you enjoy the diversity?]
Édouard: There’s no perfect venue for us. As long as the sound system is good, what matters most is the people and the atmosphere. Each performance is shaped by its setting, and that’s part of what keeps the project exciting.
Arnaud: That’s what makes touring interesting. Some venues we know well, others are completely new to us, so each night feels different. It prevents the performances from becoming repetitive. Improvisation plays a big role, and adapting to each space keeps our live act fresh.
>> ENGLISH <<
A cura di Invisible°Show
[Cosa vi ha portato a creare questo duo?]
Arnaud: Il nome A_R_C_C nasce dalla combinazione dei nostri nomi: A_R da me e c_c da Edouard, che si esibisce con questo pseudonimo. Io non uso A_R come nome solista, ma ci è sembrata una combinazione naturale. Per quanto riguarda le origini del progetto, abbiamo iniziato unendo i nostri setup individuali, utilizzando gli stessi strumenti che già avevamo separatamente. All’inizio era un approccio molto massimalista - tantissima attrezzatura, un grande tavolo pieno di dispositivi. Con il tempo abbiamo deciso di affinare il nostro suono, concentrandoci su un set specifico di elementi. Da un anno e mezzo lavoriamo con le luci, il che ha reso le nostre performance uniche rispetto ai nostri altri progetti.
Édouard: Per me tutto è iniziato quando ho visto un’esibizione solista di Arnaud e l’ho trovata fantastica. Poco dopo ci siamo conosciuti e gli ho subito chiesto se fosse interessato a suonare insieme. Entrambi ci siamo divertiti molto, e così è nato il progetto—molto semplicemente e spontaneamente.
[Potete descrivere il processo di scelta degli strumenti che usate per A_R_C_C? Da dove provengono questi oggetti e avete seguito un metodo particolare nella loro selezione?]
Édouard: Il processo ha richiesto molta sperimentazione con materiali e suoni diversi. Con il tempo abbiamo scoperto che le luci potevano produrre risultati sonori interessanti. All’inizio utilizzavamo luci casuali trovate nei negozi, provando a capire che suoni potessero generare e come interagissero con il nostro setup. In seguito abbiamo collaborato con un costruttore di sintetizzatori, che ci ha aiutati a sviluppare uno strumento basato sulla luce: una sorta di sintetizzatore modulato dalla luce, progettato appositamente per il nostro progetto.
Arnaud: Durante la pandemia di COVID-19 siamo stati invitati a suonare in Germania, e quel periodo ci ha fatto ripensare al nostro approccio. Abbiamo esplorato nuove direzioni, concentrandoci in particolare sugli aspetti performativi della musica elettronica - non solo girare manopole, ma considerare anche gli elementi visivi e teatrali.
Per esempio, in quel periodo chiedevamo il tavolo più lungo possibile – due o tre metri – e lo posizionavamo vicino al pubblico. Questo costringeva gli spettatori a scegliere chi guardare, perché non potevano vederci entrambi contemporaneamente. È stato allora che le luci sono diventate per noi un elemento centrale. Più esploravamo la dimensione performativa, più ci rendevamo conto che la luce poteva essere il fulcro del nostro lavoro.
[Il vostro album del 2019, Consensus & Compromis, include voci del pubblico. In che modo l’interazione con il pubblico entra nel vostro lavoro?]
Arnaud: Ci consideriamo musicisti dal vivo. Non ci limitiamo a suonare musica elettronica, ma interagiamo attivamente con il pubblico. Spesso ci esibiamo al centro della stanza, il più vicino possibile agli spettatori, in modo che non solo ascoltino la musica, ma vedano anche i gesti e le interazioni che danno forma alla performance.
Édouard: Ci interessa molto di più la dimensione live rispetto alle registrazioni in studio. L’improvvisazione è una parte fondamentale del nostro processo, e per entrambi suonare dal vivo è molto più naturale che comporre in studio. Anche le nostre cassette sono collage di registrazioni live. La maggior parte delle nostre registrazioni, comprese quelle inedite, proviene da performance dal vivo.
[Suonate in luoghi molto diversi, dai club agli spazi punk fino ai contesti artistici più istituzionali. Esiste una location ideale per A_R_C_C o apprezzate la varietà?]
Édouard: Non esiste un luogo perfetto per noi. Finché il sistema audio è buono, ciò che conta di più sono le persone e l’atmosfera. Ogni performance è influenzata dal contesto, ed è questo che rende il progetto sempre stimolante.
Arnaud: È quello che rende il tour interessante. Alcuni posti li conosciamo bene, altri sono completamente nuovi, quindi ogni serata è diversa. Questo impedisce che le performance diventino ripetitive. L’improvvisazione gioca un ruolo importante, e adattarsi a ogni spazio mantiene il nostro live sempre fresco.
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[Cosa ti ha portato a scegliere la performance come mezzo di espressione piuttosto che un’altra forma d’arte?]
Ho studiato Belle Arti in un’accademia tradizionale, dove l’approccio era per lo più orientato al padroneggiare le diverse tecniche, cosa che non mi interessava particolarmente. Così ho iniziato a esplorare la performance art e tutti i linguaggi che coinvolgevano il corpo, inclusa la fotografia che ho sperimentato attraverso gli autoritratti, finché la performatività implicita di quel mezzo ha preso il sopravvento. Da lì in poi, la mia attenzione si è spostata sempre più verso un mix di azione e immagine, fino a diventare la forma espressiva che prediligo, ma non l'unica.
Un altro aspetto è legato alla praticità della performance. Non ho mai avuto uno studio fino a questo mese! La performance mi ha permesso di sviluppare idee anche solo restando nella mia camera. All'inizio, infatti, il mio approccio era molto minimale in termini di produzione: azioni con uno o due oggetti facilmente reperibili, senza luci, suoni o allestimenti complessi.
Acción con Monedas I. performance 3h, Acción!MAD Festival, Matadero Madrid 2016
[Che ruolo ha per te il pubblico?]
I miei primi lavori erano performance di lunga durata, spesso presentate all’interno di contesti in cui contemporaneamente succedevano anche altre cose. Il che creava una dinamica in cui il pubblico poteva entrare in relazione con il mio lavoro solo a tratti.
Adesso che la mia pratica è evoluta verso una forma più narrativa, chiedo l’attenzione del pubblico all'interno di un preciso arco di tempo. Nutro un grande rispetto per il pubblico: considero il mio lavoro come un’offerta, qualcosa che dono a loro. Può essere emozionale, contemplativo, divertente o stimolante. Alla fine, è sempre il pubblico a decidere.
[Nel tuo lavoro esplori temi di identità da una prospettiva sociale e culturale, sempre attraverso una lente personale. Puoi condividere il tuo pensiero e l’urgenza che ti spinge ad affrontare questi temi attraverso l’arte?]
Sono sempre stato interessato ai temi dell'identità, società, cultura e politica. All’inizio della mia carriera ero ispirato dal contesto in cui vivevo, in particolare dalla crisi economica del 2008 in Spagna. Durante quel periodo, il mio lavoro era concettualmente esplicito, rispondendo direttamente alla situazione socioeconomica, con poca enfasi sugli elementi personali.
Negli ultimi 5-6 anni, ho affrontato temi simili attraverso una lente più personale, intrecciando argomenti come classe, politica e giustizia sociale con esperienze personali di amore, appartenenza e cura.
Per me, affrontare questi temi attraverso l'arte è un modo per rispondere e riflettere sul contesto politico e sociale attuale e su come questo sia connesso con le mie sfide personali.
Deepfaked Ocaña Wishing Me Goodnight, 2021. A project of Lucía Vives and Eloy Cruz del Prado for Rietveld UnCut. Graphics by Tomás Queiroz, mastering by Maja Chiara Faber.
Deepfaked Ocaña Wishing Me Goodnight
rietvelduncut.rietveldacademie.nl
[Secondo te, qual è il ruolo dell’artista nella società di oggi? Qual è, in sostanza, lo scopo dell’arte oggi?]
Ci sarebbero molte risposte... Artiste e artisti svolgono diversi ruoli con intenti e scopi differenti.
Per me, l’arte e la cultura hanno la capacità di unire le persone, e questo è un grande potere. È anche il motivo per cui arte e cultura vengono spesso represse quando si cerca di imporre una narrazione dominante.
[Qual è il tuo rapporto con il mondo/sistema dell’arte?]
Penso che esistano molti mondi/sistemi dell'arte. Dalle scuole d'arte, alle reti delle residenze artistiche fino alle scene artistiche locali... questi sono i mondi con cui ho un buon rapporto o che trovo stimolanti. Ho invece un rapporto più complicato con le fiere, il mercato dell'arte e la questione del valore.
Non vivo (ancora?) della mia pratica, il che influisce sul mio processo creativo, perché trovare un modo per sostenermi economicamente è essenziale. Ciò mi ha indotto a desiderare di avere accesso a quel sistema istituzionale dell’arte, al mercato e al mondo accademico, non solo per una stabilità finanziaria ma anche per quell'idea di validazione che lo identifica. Un’ambizione che in qualche modo triggera le mie origini di ragazzo della working-class con aspirazioni.
In sintesi, è un rapporto complicato 🙂
HUNDRED SECONDS LONGER AND ITS OVER. LOOKING FOR REAL? FOR REAL. Cállate, que menudo polvo echaron tus padres para tenerte. THERE IS NO LOVE, BUT I CALL THEM LOVERS. CARETAKER. HEART-SHAPED PIGGY BANK
[Come immagini – o come vorresti che fosse – il sistema dell’arte del futuro?]
Oggi il futuro sembra incredibilmente incerto. Idealmente immagino un mondo dell’arte che non censuri chi si oppone al genocidio e all’imperialismo. Mi piacerebbe vedere un sistema in cui il valore primario delle opere non sia il prezzo, ma la capacità di ispirare, provocare pensieri, emozionare e resistere alle forze oppressive
[Quali artistɜ del passato o del presente, provenienti da diversi ambiti, hanno influenzato o continuano a influenzare il tuo lavoro?]
Sono moltɜ lɜ artistɜ che mi hanno ispirato e che probabilmente hanno influenzato il mio lavoro in modi diversi. Quellɜ con cui sento una maggiore connessione hanno in comune l’intensità fisica delle loro opere, la monumentalità in alcuni casi e la profondità narrativa o tematica.
Tra questɜ ci sono artistɜ visivɜ, musicistɜ, drag queen e scrittorɜ. Per esempio Félix González-Torres, Matthew Barney, Francesca Woodman, Jean Genet e Arca.
[Ti va di parlarmi della tua serie di lavori “Good Job, Good Boy” e, nello specifico, della performance che presenterai al Performatorio? Come è nata e perché?]
Con “Good Job, Good Boy I”, ho iniziato a riflettere sul concetto di lavoro, una tematica che avevo già affrontato durante gli studi, ma qui si intreccia con i temi dell’amore, della sessualità e del genere.
Dopo la laurea, il lavoro e la carriera sono diventati un argomento importante e anche pesante per me. La mia opera precedente, “Hundred Seconds Longer and It's Over […]”, indagava il ruolo della resistenza nello sviluppo dell’amore, della sessualità e della cura.
Volevo scoprire come il lavoro s’intrecciasse al nostro senso di appartenenza o di validazione, e che cosa avesse a che fare con l'amore o l'affetto.
C’erano due elementi che volevo utilizzare, non necessariamente insieme: il filmato di mio nonno che lavorava nei campi e le castañuelas, lo strumento che suonavo quando facevo parte del gruppo di danze folkloristiche a Cenicientos. Ho iniziato a esplorare come combinare questi elementi con il movimento e il testo. Alla fine, ho trovato una chiave narrativa nella clip che ho selezionato dal documentario, che presenta due personaggi: mio nonno e il mulo che appare nel video della performance. Infine, ho messo in relazione la loro storia con la mia, attraverso il lavoro, a come questo sia uno strumento di validazione che tutti e tre condividiamo e utilizziamo.
From Dawn to Dusk, video
“Good Job, Good Boy II” (sketches I-VI) rappresentano le prime manifestazioni formali di questa serie e sono ancora in progress. Tuttavia, “Good Job, Good Boy II* è il primo pezzo completamente sviluppato.
Sto anche sperimentano altre forme che questo lavoro o ricerca può assumere, con un approccio materiale come disegni, sculture o installazioni. Arriverà presto.
(Cover photo © Carmen Gray)
[What led you to choose performance as your medium of expression rather than another form of art?]
I studied a BA in Fine Arts at a traditional academic university. The approach to art there was very much about mastering different techniques, which I wasn’t particularly interested in. So, I started researching performance art and exploring mediums involving the body, including photography. I delved into photography through self-portraits, and eventually, the performativity inherent in that medium took over. I then shifted my focus to actions and images, which gradually became my primary – though not exclusive – medium.
Another factor was the practicality of the practice. I never had a studio until this very month! Performance became a medium that allowed me to develop ideas within my room. My approach was very minimal in terms of production, focusing on actions with one or two accessible objects, without lights, sound, or complex setups.
Acción con Monedas I. performance 3h, Acción!MAD Festival, Matadero Madrid 2016
[What role does the audience play for you?]
In my early works, I focused on long-duration performances, often presented during events where other activities were happening simultaneously. This created a specific dynamic where the audience could engage with the work intermittently.
Now, my practice has evolved towards a more narrative form, where I request the audience’s attention within a specific time frame. In my performance practice, I hold great respect for the audience. I see my work as an offering - something I present to them. It could be emotional, contemplative, entertaining, or thought-provoking. Ultimately, the interpretation is up to the audience.
[In your work, you explore themes of identity from a social and cultural perspective, always through a personal lens. Could you share your thoughts and the urgency that drives you to address these themes through art?]
I’ve always been interested in identity, society, culture, and politics. Earlier in my career, my work was inspired by the context I lived in - specifically the 2008 economic crisis in Spain. During that period, my work was conceptually explicit, directly responding to the socio-economic situation, with little emphasis on personal elements.
In the past 5–6 years, I’ve approached similar themes through a more personal lens, addressing topics like class, politics, and social justice intertwined with personal experiences of love, belonging, and care.
For me, addressing these themes in my practice is a way to respond to and reflect on the current political and social context and how it intersects with my own personal challenges.
Deepfaked Ocaña Wishing Me Goodnight, 2021. A project of Lucía Vives and Eloy Cruz del Prado for Rietveld UnCut. Graphics by Tomás Queiroz, mastering by Maja Chiara Faber.
Deepfaked Ocaña Wishing Me Goodnight
rietvelduncut.rietveldacademie.nl
[In your opinion, what is the role of the artist in society today? What is the purpose of art today?]
The role of the artist in society today has multiple answers. Artists fulfill many roles with diverse intentions and purposes.
For me, art and culture have the capacity to bring people together, and that is immensely powerful. It’s also why art and culture are often repressed when a specific narrative seeks to dominate.
[What is your relationship with the art world/system?]
I believe there are many art worlds and systems. I have a positive and stimulating relationship with aspects like art schools, residency networks, and local art scenes. However, when it comes to art fairs, the market, and questions of value, my relationship is more complicated.
I don’t (yet?) live off my practice, which impacts my creative process since finding a way to sustain myself financially is essential. This has led to a desire to enter spheres like the art market and academia - not only for financial stability but also for the validation they offer. This ambition ties back to my roots as an aspirational working-class kid.
In resume, It’s a complicated relationship 🙂
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[How do you envision – or how would you like – the art system of the future to be?]
The future feels incredibly uncertain these days... I would like an art system that doesn’t censor artists who speak out against genocide and imperialism. I’d like to see a system where the primary value of art isn’t its price but its capacity to inspire, provoke thought, move people, and resist oppressive forces.
[Which past or present artists, from various fields, have influenced or continue to influence your work?]
I’ve been inspired by many artists, and they’ve likely influenced my work in different ways. The artists I feel most connected to often share traits such as the physical intensity of their pieces, monumentality in some cases, and narrative or thematic depth. These include visual artists, musicians, drag queens, and writers. Notable names include Félix González-Torres, Matthew Barney, Francesca Woodman, Jean Genet, and Arca.
[Can you tell me about your work series Good Job, Good Boy and, specifically, the performance you’ll be presenting at the Performatorio? How did it come about, and why?]
With "Good Job, Good Boy I", I started reflecting on labor, something I had previously explored during my BA studies, but this time it was intertwined with themes of love, sexuality, and gender. "Good Job, Good Boy II (sketches I-VI) were the first formal manifestations of this series and remain a work in progress. However, "Good Job, Good Boy II" is actually the first fully developed piece in the series.
After graduation, labor and even professional careers became an important and weighty topic for me. My previous work, "Hundred Seconds Longer and It's Over", explored the role of resistance in the development of love, sexuality, and care. I wanted to understand how labor intersects with our sense of belonging or validation, and what role it plays in love or affection.
There were two elements I wanted to incorporate, not necessarily together: footage of my grandfather working in the countryside, and the castañuelas, the folkloric instrument I played when I was part of the folkloric dance group in Cenicientos. I began exploring the possibilities of combining these elements with movement and text.
Eventually, I found a narrative in the clip I selected from the documentary, which presents two characters: my grandfather and the mule that appears in the video. Ultimately, I connect the narrative of these three characters –the grandfather, the mule, and myself – in how labor becomes a shared tool for validation that all three of us use.
From Dawn to Dusk, video
I am also exploring the possible forms this work or research can take, with a material approach such as drawings, sculptures, or installations. More to come soon.
(Cover photo © Carmen Gray)
[Qual è il tuo approccio alla danza?]
“Danza” è una parola complicata, perché presuppone delle dinamiche e una certa idea di corpo e movimento.
Ho avuto una formazione accademica, prima in danza classica e poi contemporanea, che mi stava un po’ stretta. I due turning point che hanno segnato la mia vita e la mia percezione artistica sono arrivati in seguito, prima con una borsa per studiare a New York con Trisha Brown e, successivamente, con l’incontro della danza Butoh di Masaki-Iwana.
La danza per me ha un significato che è già cambiato diverse volte e che forse continuerà a cambiare. Sicuramente oggi posso dire che danza significa saper usare il corpo con consapevolezza, presenza e coscienza. Non soltanto una consapevolezza formale del movimento, ma interiore, che riguarda l’ascolto e l’intenzione del movimento.
Anche alzarsi da una sedia può essere una danza, dipende da come lo fai. Se lo fai con una certa intenzione, allora può diventare danza. E ogni corpo, in potenza, può danzare. Questo è per me la danza oggi.
La tecnica, poi, è un'altra cosa: è uno strumento utile o non utile, a volte limitante. Il corpo, invece, è il motore di ricerca.
Credo molto nella pratica fisica e nella disciplina, perché penso che il corpo vada conosciuto, abitato, vissuto e praticato non soltanto a livello fisico e motorio, anche energetico. In questo senso la tecnica deve essere uno strumento, non una gabbia. Vedi, anche il balletto mi ha dato tanto, più che altro una forma mentis, un’abitudine alla resistenza, alla disciplina e alla precisione ma resta per me uno strumento che ho attraversato. Decostruire quello che ho imparato forse è stata la cosa più difficile, che ancora non so se ho del tutto compiuto.
Corpus Mobile, 2014 - 2015, Federica Dauri, Kiril Bikov, ph © Alwin Poiana
[Ti faccio una domanda che è anche un po’ una provocazione. E te lo dico perché, mentre tu mi parli di una conoscenza del corpo che passa attraverso l’esercizio e la disciplina, a me viene in mente il controllo, più che il piacere… Come si relaziona il piacere a tutto ciò?]
Domanda interessante. Il piacere lo trovo sul confine, nel limite che mi predispongo… Per esempio, se voglio cercare le sfumature del movimento delle costole, riduco i movimenti delle braccia e delle gambe e mi concentro su questo piccolo-piccolo spazio per esplorare tutte le sue possibilità. Per me questa è una forma di piacere. Però sono consapevole che in questa pratica il piacere e la frustrazione vanno di pari passo, perché la ricerca del micro-dettaglio, di ciò che è nascosto, è complessa. Non può portare immediatamente al piacere, deve passare attraverso una strada più tortuosa.
[Mi hai parlato di consapevolezza e coscienze del corpo e del movimento, come vivi l’invecchiamento?]
È un argomento complicato per me. A mio padre è stata diagnosticata una distrofia muscolare degenerativa, una malattia che trasforma il muscolo e lo fa scomparire piano piano, che ti porta quindi a osservare i suoi risultati più drammatici al di fuori, nella materia corpo.
Convivere con questa diagnosi mi ha portata ad avere una visione completamente nuova sulla precarietà del corpo; ha iniziato a muovermi il desiderio di raccontare la verità di altri corpi, anche fragili, che hanno pesi, forme e gravità diverse. E che invecchiano. Mi sta aiutando anche a fare pace con la mia paura di invecchiare, che odio, che è stata forte ed è ancora forte ma allo stesso tempo sono curiosa di continuare a raccontare il mio corpo che invecchia. Ne ho paura, ma anche ne sono attratta, vedo che cambia e questo mi intriga sempre di più.
[Ti va di parlarmi di “Interno sospeso”? Come si relazione al pubblico?]
Sono molto felice di portare “Interno sospeso” al Performatorio. È un lavoro nuovo, che ho amato e nasce in collaborazione con una compositrice con la quale lavoro da anni, Elisa Batti. “Interno sospeso” è un'evoluzione di un progetto già esistente, legato all’immobilità, in cui ero avvolta in una nuvola di rete metallica. Un materiale sottile che ha una sua durezza ma ha anche un qualcosa di profondamente etereo. Ho iniziato ad appassionarmi a questo contrasto che in qualche modo rappresenta anche una dinamica interiore - un confine. È una scultura che ogni volta si adatta allo spazio così come il mio corpo si adatta ad abitare quei limiti, infilandosi negli spazi possibili.
La rete ha molti significati, anche politici. Mi interessa come l’intelligenza del corpo trovi spazio all’interno del limite, creando nuove strade. Mentre preparavo questo lavoro pensavo all’idea dell’animale, a come trova una forma di resistenza all’interno dello spazio in cui viene costretto, senza superarlo ma trovando il modo per abitarlo.
La composizione musicale contribuisce a creare uno spazio sospeso, una bolla in cui il tempo si dilata e perde la sua connotazione. Il pubblico è invitato ad abbandonarsi, a perdersi in un’immagine senza dover cercare necessariamente un filo logico o una narrazione intellettuale. Il mio auspicio è che le persone si abbandonino a una fruizione emotiva, come possono e per il tempo che possono.
see-through, 2019, Federica Dauri
[Il tempo della contemplazione è qualcosa che stiamo perdendo…]
È una costante dei miei lavori. Penso che il tempo dilatato sia qualcosa di necessario, che stiamo dimenticando e che forse, nel mio piccolo attraverso la performance, cerco di riproporre. Perché è solo così che possiamo riprendere contatto con un modo diverso di stare, meno frenetico, meno legato al fare, al produrre. Un oziare creativo.
[Che è necessario]
Necessario per sentire il corpo.
[Stiamo tornando all’inizio di questa conversazione, quando tu mi dicevi che la tua idea di danza è una ricerca interiore del corpo, che intendi il movimento come un’intenzione deliberata che in potenza riguarda tutte le persone. La frenesia del fare e produrre invece ci allontana dall’intenzione...]
È esattamente quello che intendevo, parlando di danza ma anche, banalmente, della consapevolezza dell’effetto che ha qualsiasi cosa sul nostro corpo; della sua condizione psicofisica. In che modo una notizia che abbiamo ricevuto sosta nel nostro corpo? Quale reazione ci provoca? Dove la sentiamo? In che modo respiriamo?
Quando mi trovo a insegnare parto sempre da un grosso lavoro sul respiro e mi rendo conto quanto sia difficile, per esempio, inspirare, mantenere un’inspirazione lenta, quindi prendersi del tempo per far entrare l’aria nel nostro corpo. Già questo ti fa capire quanto poco tempo ci concediamo per sentire le nostre necessità, corporee ma anche emotive.
Fase orale, 2018, Federica Dauri e Martina Gabrielli, ph © Paolo Sasso
[Prima, parlando di “Interno sospeso” hai toccato il tema del valore simbolico e politico di un’opera. Cosa significa essere un’artista oggi, rispetto al contesto globale che stiamo vivendo?]
È un momento storico difficilissimo: troppe guerre in corso, troppe ingiustizie, troppo orrore. L’umanità sembra soffocare sotto il peso di conflitti senza fine e di violenze che si ripetono, mentre la dignità umana e i diritti fondamentali vengono calpestati ogni giorno. Basta guardare al Medio Oriente: la resistenza del popolo palestinese, schiacciato dal peso di un genocidio che minaccia di annientarlo, eppure capace di trovare ancora la forza di resistere. È un popolo che ha attraversato decenni di conflitto e una crisi umanitaria di proporzioni drammatiche. E allora mi chiedo: cosa possiamo fare noi?
Forse l’unica strada, come artisti ma prima di tutto come esseri umani, è continuare a informarsi e studiare, nutrendoci di una pluralità di fonti per sviluppare una comprensione attiva e critica. Non possiamo accettare il silenzio e l’indifferenza, dobbiamo riflettere profondamente sui diritti umani violati, sulle violenze e sulle ingiustizie, stimolando riflessioni critiche sul ruolo di una comunità internazionale che troppo spesso rimane inerte e in silenzio.
(Ph. © Hanna Schaich)
[Ti va di introdurre Alos? Chi è e com’è nata nel tuo percorso?]
Alos è nata ormai 20 anni fa, dopo gli OvO e le Allun. Venti anni fa per me era “il progetto nuovo”. È nata da un’esigenza, perché mi era capitato di fare una data da sola a Palermo – a differenza di quello che facevo con OvO che è un duo e con Allun che era una formazione aperta – e, al rientro, nel viaggio da sola da Palermo a Milano, mi ero detta che sarebbe stato interessante continuare a sviluppare un’esperienza performativa solista.
Da lì anche il nome, Alos, il contrario di “sola”. Per anni tra l’altro c’è stato un punto di domanda davanti al nome “?Alos”, come a domandarmi “sola?”. Con il tempo è scomparso ma ha avuto un significato importante, è stato un quesito identitario su cosa significa “sola” - perché di fatto poi con Alos hanno sempre collaborato altre persone, ciascuna con la sua professionalità...
[E poi c’è il pubblico; c’è sempre una relazione con il pubblico.]
Esatto. Nelle mie performance il pubblico è sempre stato fondamentale, sin dai primi lavori, che erano una ricerca sui cinque sensi e sul ruolo della donna da un punto di vista sociale e culturale.
In una delle prime performance, per esempio, giravo con una cucina mobile e cucinavo cibo vegano – 20 anni fa non era così comune – che poi condividevo con il pubblico. Mi portavo sul palco spezie, verdure, tofu, pentole, piatti e bicchieri di cristallo, allestivo la mia azione che, anche a livello sonoro, aveva un suo impatto: usavo la voce, le elettroniche, il violino, i microfoni a contatto... Il pubblico ovviamente era parte integrante, partecipava con tutti i sensi perché lo spazio si riempiva anche degli odori del cibo, e poi si mangiava davvero. Oggi i tempi sono cambiati ma allora condividere cibo vegano aveva un altro significato: era una critica e anche un’altra possibilità.
In un’altra performance, invece, cucivo. Era una sorta di musical in cui da sola, con la macchina da cucire, cucivo un pupazzo di pezza.
Volevo portare l’attenzione sia sul lavoro femminile sia sullo sfruttamento legato all’immigrazione. Ai tempi vivevo a Milano, era il periodo in cui la città era piena di laboratori colmi di immigrate cinesi sfruttatissime che lavoravano per l’industria della moda (cosa che non è cambiata affatto): mi interessava l’esperienza di chi lascia il proprio paese per trovare una situazione migliore e poi si scontra con un lavoro sottopagato e la solitudine.
Il vero switch, il passaggio verso il rituale e un interesse verso la spiritualità – il sesto senso – è arrivato dopo “Era”, che per me era un progetto sonoro, un concerto, ma per molto tempo mi sono sentita dire di tutto: da “Bella la performance. Non è musica, vero?” a “Oh, com’è catartico!” fino a “Suoni chitarra e voce, quindi fai folk?”
Facevo doom, facevo metal. Per me era chiaro ma le persone – spesso uomini, molto spesso giornalisti – ci vedevano solo una serie di stereotipi che non avevano nulla a che fare con il mio lavoro. A un certo punto ho deciso che era un problema loro: erano limitati. Per me era chiaro quello che stavo facendo.
[Se sei una donna non puoi fare doom metal, sia mai!]
Se urli sei pazza e uscita da un manicomio… Ricordo che in una recensione per “Matrice”, album in cui dichiaravo di essere femminista, queer e anarchica – dichiarazioni che erano scritte nero su bianco nel comunicato stampa – qualcuno aveva scritto “Ci sta prendendo in giro, è pazza o cosa?”. Non puoi usare le parole in questo modo.
Facevo dischi già da 15 anni e non avevo bisogno di recensioni. Da lì in avanti ho iniziato a scegliere altre strade, anche più complicate se consideri anche solo la ricerca di spazi non convenzionali, ibridi, ma più adatti ad accogliere il mio lavoro: io non sono solo una musicista e adesso non sento neanche di affermare che faccio “performance”, faccio “riti”.
[Che cos’è per te il rito oggi?]
Se consideriamo il nostro quotidiano, esistono piccoli riti personali che sono importanti, perché ci permettono di focalizzarci e prenderci cura di noi stessi. Poi ci sono i riti collettivi, quelli che mi interessano, in cui sei tu con le altre persone in una dimensione altra, sospesa, nella quale avviene uno scambio - una circolarità di energie che dall’esterno si muovono verso l’interno e viceversa. Nell’esperienza contemporanea, anche andare a ballare o a un concerto può essere un rito collettivo.
Parlare di riti oggi è complesso ed è importante considerare il rito da un punto di vista storico e antropologico per non cadere nell’appropriazione culturale. Nei miei lavori ogni scelta è misurata affinché il rituale abbia una sua identità, nel rispetto del passato e delle altre culture. Un rito contemporaneo nel quale mi apro a una dimensione spaziale e temporale.
Credo fermamente nel fatto che tutto sia connesso, permeabile e attraversabile, a livello spaziale, temporale e anche verso una dimensione spirituale. E parlando con persone esperte di spiritualità mi sono spesso interrogata sul fatto che qualcuno di noi possa avere la capacità di fare da canale verso altre dimensioni invisibili.
[Ti è mai capitato?]
Condivido l’esperienza che ho vissuto… Ero in Liguria con “The Chaos Awakening”, in un piccolo festival immerso nella natura - oltretutto sotto Triora, che è un posto non molto conosciuto ma con una storia incredibile: un luogo non lontano da Sanremo dove in passato, nel XVI secondo, alcune donne vennero processate per stregoneria, accusate di aver causato una carestia. In quell’occasione per la prima volta ho sentito chiaramente che ero connessa con quello che stavo facendo, al punto da accorgermi che stavo andando in trance.
Il giorno dopo raggiungo l’organizzatore che era con la sua famiglia, la mamma e la zia gli davano una mano e, per caso, la sera prima c’era anche la nonna, una signora anziana che ovviamente non era interessata alla mia musica e non la conosceva, ma era una donna molto sensibile, con un vissuto doloroso legato a quel luogo… La incontro e mi dice che la sera prima, mentre suonavo, attorno a me aveva visto molte persone tra cui il figlio morto. Al momento l’avevo presa con leggerezza, ma di lì a poco ho dovuto affrontare due gravi problemi di salute - un tumore al seno e un’encefalite che ha messo a rischio la mia vita. “Calma”, mi dico.
Da sempre, il suono per me è uno stimolo alla connessione, lo è per Alos come lo è con gli OvO. La musica, un certo tipo di musica, ha la capacità di toccare delle corde, di aprire i canali. Nel rituale questo lo dichiaro, può accadere. Per questo mi occupo anche dello spazio in cui si svolge, lo “pulisco” da energie che potrebbero interferire e invito il pubblico a vivere il rito con una determinata propensione perché l’idea, lo scopo, è che le persone che partecipano si colleghino tra loro con un filo invisibile.
[Il titolo “Embrace The Darkness” mi piace molto e mi ricorda come tutti abbiamo una zona d’ombra che tendiamo a tenere lontana da noi, perché così ci hanno insegnato a fare, quando invece accoglierla, passarci del tempo e farci due chiacchiere ci aiuterebbe meglio a capire qual è il nostro scopo. Magari il tuo è proprio quello di connettere… Dopo tutto cos'è la performance? Un’esperienza collettiva che funziona se genera un cambiamento, seppur minimo, nelle persone che partecipano.
Parlando di connessione, in “Embrace The Darkness” c’è anche un altro livello, quello con la natura. Che ruolo ha?]
La natura è un gigantesco amplificatore, e anche lei parla. In “Embrace The Darkness” provo a dare voce a quella natura che a Stromboli ho vissuto, che ho assorbito e che ho trasformato a livello creativo, attraverso la voce e il suono. Entrare in contatto con la natura significa connettersi anche con la nostra parte primordiale, animalesca.
Noi conviviamo con la natura ma di solito non è una convivenza armonica, cerchiamo sempre di dominarla, sfruttarla, ma la natura è imprevedibile e selvaggia, non la puoi addomesticare. Ero arrivata a Stromboli, dove è nato “Embrace The Darkness” subito dopo un enorme incendio che aveva arso una parte dell’isola, mettendo la natura in sofferenza e traumatizzando gli abitanti. Un incendio causato dall’uomo durante le riprese di una serie televisiva che avrebbe invece dovuto valorizzare il territorio... Ovunque c’era odore di bruciato, denso, persistente. Se natura e uomo vivono in armonia e rispetto (come per esempio nella parte dell’isola in cui si trovano gli insediamenti più antichi, che non avevano subito danni), si crea un equilibrio, diversamente si crea distruzione.