C’è chi alla musica affida le corde di una chitarra, chi i tasti di un pianoforte. Lucas Abela, nato a Melbourne nel 1972, ha scelto invece una strada radicale: trasformare i frammenti di vetro in strumenti sonori. La sua pratica nasce nell’underground della musica sperimentale, dove si è fatto conoscere per performance tanto ipnotiche quanto estreme, e oggi si estende a installazioni partecipative che rimettono in discussione il rapporto tra pubblico e artista.
Il percorso di Abela prende forma negli anni 90 a Sydney, quando si esibiva come DJ e turntablist. Già allora era evidente la sua voglia di scardinare i limiti degli strumenti: al posto delle puntine dei giradischi usava spille, coltelli o spiedi, trasformando la materia in vibrazione. Da quella stagione nascono anche i suoi fonografi artigianali, costruiti con motori elettrici riciclati, piccoli esperimenti che rivelano una tensione continua verso l’invenzione.
Il suo approccio anticonvenzionale non passa inosservato. Musicisti come Oren Ambarchi e Mike Avenaim ne colgono subito la forza e lo sostengono nei primi passi di una carriera che lo porterà presto fuori dall’Australia, su palchi internazionali.
La svolta arriva nel 2003, quando Abela scopre il vetro come strumento. Un materiale fragile, tagliente, pericoloso: tutto ciò che la tradizione musicale evita, lui lo elegge a cuore pulsante delle proprie performance. Il risultato sono concerti che non lasciano indifferenti, oscillando tra attrazione e repulsione, tra stupore e inquietudine.
E il sangue che spesso affiora sul palco? Per Abela non è un incidente, ma una conseguenza naturale di un atto performativo che travalica i confini del corpo: «Non mi accorgo nemmeno di essermi tagliato, finché qualcuno, dopo lo show, non mi dice: “Forse dovresti pulirti un po’.” È come se suonare mi portasse fuori da me stesso. Non sento dolore».
Presenza di atti violenti e di autolesionismo
Non adatto ai minori
Unica data italiana
Apertura porte ore 21.00
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