A cura di Laura Nozza
Annamaria Ajmone è una danzatrice e coreografa le cui ricerche sono spesso il frutto di un lavoro collettivo, fatto di collaborazioni.
I suoi lavori sono stati presentati in numerosi festival di danza, teatro e performing art, musei e fondazioni tra cui Torino Danza (Torino), La Biennale Danza (Venezia), Public Fiction (Los Angeles), brut (Vienna), Bit-teatergarasje (Bergen), Palais de Tokyo (Parigi), Pinacoteca Agnelli (Torino), Palazzo Grassi (Venezia), Fabbrica Europa (Firenze), FOG Triennale (Milano), Short Theater (Roma) e molti altri.
Organizza Nobody's Indiscipline, piattaforma di scambio di pratiche tra artisti, e cura la programmazione di MOTELSALIERI (ß).
Al Performatorio porta, con Veza Fernandez, una inedita forma concerto de “I pianti e i lamenti dei pesci fossili”, performance che ha debuttato a ottobre 2024 alla Triennale di Milano.
In una conversazione abbiamo parlato della sua pratica e ricerca, del senso politico di fare arte e… del futuro.
[Guardando i tuoi lavori, più e meno recenti, ho pensato a questi concetti: incontro, scambio, confine - limine, invisibile / visibile. Come descriveresti la tua ricerca a chi non conosce il tuo lavoro?]
Non saprei definire la mia pratica o trovarle dei confini. Faccio questo lavoro perché sono molto curiosa. Lo sono delle altre persone, animali, cose… delle alterità. Mi piace immergermi in ciò che mi circonda, e più le cose mi sfuggono e non riesco a comprenderle, più mi affascinano. La definirei più una pratica sociale.
[È quindi un modo di relazionarti?]
Sì. Alla base del mio lavoro c’è sempre la relazione. Che si tratti di una o di un collega, uno scambio di saperi, un incontro tra il mio corpo e lo spazio architettonico. È una pratica di relazione che utilizza il corpo, il movimento e la voce per entrare in contatto. E il mio corpo, tutto il mio corpo, è lo strumento attraverso cui costruisco le relazioni, lo spazio e il tempo.
[E che rapporto hai con questo strumento-corpo o materia-corpo?]
È una materia mutevole, attraversata da ciò che arriva dall’esterno e viene rielaborato. È in questo movimento continuo che risiede il mio interesse - ciò di cui mi occupo.
Mi affascina, per esempio, il modo in cui il nostro corpo si relaziona agli spazi. E questo riguarda chiunque, non soltanto chi pratica la danza. Abbiamo posture e attitudini diverse in spazi chiusi o aperti. All’aperto, ad esempio, siamo più all’erta perché riceviamo più input. È un meccanismo semplice ma potentissimo. Mi interessa cosa succede in questi automatismi.
[La tua ricerca si apre spesso alla possibilità, all'imprevisto…]
I miei lavori non hanno una struttura rigida. Anche quando esiste uno sviluppo drammaturgico, lascio sempre spazio a ciò che può accadere. È una materia viva, mutevole, e mi interessa che ogni lavoro, ogni volta, sia sempre anche un momento di sperimentazione. Voglio che a ogni replica il lavoro sia simile ma diverso, influenzato dal contesto e dal pubblico. È sempre una prima volta.
[In che modo il contesto e il pubblico influenzano il tuo lavoro?]
Alcuni lavori nascono proprio per essere in balia di ciò che accade, come quelli del ciclo “Arcipelago”. Ad esempio “Senza titolo” – progetto in collaborazione con Fabio Quaranta che con me cura l'abito che indosserò, ogni volta diverso in relazione allo spazio che ci ospita – non ha una scrittura definita. Qui entro in scena il più possibile svuotata. Prima studio lo spazio, lo osservo per costruire delle inquadrature che poi vengono messe in crisi dalla presenza del pubblico, che è un elemento imprevedibile. E questo è un aspetto molto affascinante.
Se hai il pubblico vicino non ne puoi fare a meno, ti influenza con la sua concentrazione, il suo silenzio, la sua presenza.
Altri lavori, invece, sono meno dipendenti dallo spazio. Nati per il teatro, hanno strutture più stabili, anche se si adattano quando si spostano altrove.
[I pianti e i lamenti dei pesci fossili sembra un caso particolare.]
Sì, lo è. Perché pur avendo debuttato in teatro, è pensato per una prossimità quasi liturgica. Una preghiera folle fatta di suoni e movimento. Al Performatorio sarà diverso ancora, più centrato sul canto e sulla vibrazione. Lo scopriremo…
Nel mio lavoro c’è sempre un aspetto che mi diverte. A volte, con le persone con cui collaboro – sempre amiche prima di tutto – le guardo mentre siamo in scena e penso: “Ma cosa stiamo facendo?” È una fortuna avere questa libertà, quando nella vita quotidiana siamo sempre repressi e incasellati, ed è anche un atto politico.
A proposito di azioni liberatorie, “I pianti e i lamenti dei pesci fossili” è anche il primo lavoro in cui utilizzo la voce, e ne sono felicissima. Sentivo che la mia ricerca coreografica era bloccata al livello della gola e avevo bisogno di cambiare direzione; il fatto di aver conosciuto Veza Fernandez e il modo in cui lei lavorava con la voce ha contribuito a questo cambiamento. “I pianti e i lamenti dei pesci fossili” è un passaggio verso qualcos'altro, non è un approdo ma l’inizio di un nuovo processo che voglio continuare a esplorare, perché sento che mi connetterà ancora di più con la materia corporea. Le trasformazioni fisiche e vocali sono sempre potenti e ci rendono potenti.
[Il tuo lavoro ha quindi una dimensione politica?]
La libertà di cui parlo – esprimersi con tutto il proprio corpo – è un atto politico. Prendersi questa libertà è un modo di sovvertire un certo tipo di educazione, un immaginario dominante sul corpo - soprattutto femminile. Il mio lavoro non è esplicitamente politico, ma lo diventa nelle scelte: nelle collaborazioni, nei temi, nei corpi che porto in scena. Spesso tratto relazioni con altre forme di vita, non solo umane. È un modo di posizionarmi, per spostare lo sguardo da una visione antropocentrica.
[Anche la connessione con il mondo animale sembra una traccia ricorrente.]
Sì, la connessione con i nostri colleghi animali è un tema che mi muove. Come in “La notte è il mio giorno preferito”. Abbiamo bisogno di cambiare prospettiva, perché viviamo una crisi ambientale profonda e il tempo è scaduto. Dobbiamo imparare a co-abitare.
[Faccio un passo indietro, nel tuo percorso: come hai scoperto la danza e quando hai deciso che quello sarebbe stato il tuo linguaggio?]
Di certo non è stata una passione da bambina. Mi sono laureata in storia e critica dell’arte, cosa di cui vado molto fiera perché mi ha aiutata sia nella mia ricerca sia nell’immaginare un lavoro e dargli struttura - ha determinato la mia relazione con l’immagine.
Poi non so spiegare esattamente cosa sia accaduto, ma sicuramente ci sono stati due momenti-chiave che hanno segnato il mio percorso. Uno è stato vedere Erna Ómarsdóttir in scena mentre facevo la maschera in teatro. Aveva qualcosa di pazzesco. Pensai: “Voglio fare questa cosa”, ma non sapevo ancora cosa fosse - se danza, teatro o altro. Non lo sapevo spiegare.
L’altro è stato iscrivermi a un corso di danza – che per me ai tempi, appena tornata dall’Erasmus, era l’alternativa più divertente alla palestra – e incontrare la danzatrice e coreografa Ariella Vidach che vide qualcosa in me. Mi convinse a iscrivermi alla Paolo Grassi e da lì cominciai davvero.
[Hai lavorato con molte artiste e artisti. Cosa cerchi in una collaborazione?]
La curiosità. Invito persone di cui stimo la ricerca. I miei lavori sono sempre costruiti da più soggetti. Non chiedo mai a qualcuno di eseguire qualcosa per me, ma di mettersi in dialogo con me. Sono scambi veri.
[Ci racconti meglio “I pianti e i lamenti dei pesci fossili”?]
Ogni mio lavoro nasce da quello che l’ha preceduto, perché tutti seguono un discorso teorico che ogni volta approfondisco. Il passaggio dal mondo più che umano a quello inanimato è stato abbastanza naturale, proprio perché la bibliografia, le connessioni e i dialoghi che avevo esplorato andavano in quella direzione.
In più, da tempo desideravo studiare l’apparato fonatorio e avevo anche il desiderio di collaborare con Veza Fernandez, che era già stata presente nel mio lavoro precedente facendomi da trainer. Il tema del fossile ci affascinava per la sua capacità di racchiudere storie, per il suo essere quasi sasso e quasi racconto. Era un modo per speculare, per attraversare strati. E la speculazione è un elemento sempre presente nei miei lavori.
Un libro che ci ha molto influenzate è “Menti parallele” di Laura Tripaldi, in particolare l’idea di ‘interfaccia’ come zona attiva tra due materiali. Questo è stato lo spunto per lavorare sull’interfaccia tra pelle e voce. Tutto si svolge in quello spazio che noi costruiamo.
[Parti sempre da un concetto o da un’urgenza?]
Da un desiderio. Poi il concetto mi aiuta a dare forma, a costruire una mappa. Il corpo e il desiderio sono sempre all’origine. Da quando lavoro con Stella Succi ho capito quanto sia importante anche mettere ordine nei materiali. Ma alcuni lavori, come “Senza titolo”, sono pura urgenza.
[Hai detto che “I pianti e i lamenti dei pesci fossili” rappresenta un passaggio importante nella tua pratica. Sai già quali saranno le prossime tappe?]
Per adesso voglio restare in questa ricerca. Continuare ad andare più a fondo nella connessione voce-corpo. Con Attila Faravelli abbiamo creato un paesaggio sonoro che sembra invisibile ma è presente, come se l’aria fosse densa. Vorrei lavorare ancora su questa sensazione.
Sto cercando di fare una residenza in Spagna, nel Conjunto Rupestre de Ulldecona, nella Sierra de Godall. Un luogo con pitture rupestri e una particolare acustica. Non ha una forma definita: è una ricerca, e questo mi piace. Anche il fatto di proporre al Performatorio “I pianti e i lamenti dei pesci fossili” in una nuova forma è un modo per farlo crescere.
[Quando ti accorgi che un lavoro o una ricerca si concludono?]
Non saprei. Non c’è una linearità. Ad esempio, in questo momento mi piacerebbe tornare su “La notte è il mio giorno preferito”. Tendenzialmente, quando debutto con un lavoro, sento che non è ancora pronto - ma va bene così. È solo facendolo e rifacendolo che inizio davvero a capirlo.
L’ultima volta che ho presentato “La notte è il mio giorno preferito”, dopo l'ennesima replica, ho pensato: “Adesso è bellissimo”. Ma non significa che sia concluso. Semplicemente, ora lo gestisco in modo diverso, con un’altra consapevolezza.
Più che sentire la fine di un lavoro, avverto quando si esaurisce un certo modo di stare nel movimento. Anche questo ha a che fare con il corpo: la mia energia è cambiata, così come la sua qualità. Alcuni lavori o alcune ricerche richiedono un’energia che oggi non ho più, perché sono diversa. Cambiamo, ed è qualcosa da cui non possiamo prescindere.
[Come immagini il futuro della danza e delle pratiche di ricerca artistica in Italia?]
Forse da più giovane mi facevo meno domande. Oggi la vedo un po’ grigia. Il fatto di dover rientrare in schemi proposti da altri – e sempre più rigidi – sta creando un sistema in cui anche i festival hanno sempre meno libertà di fare e di scegliere. Altrimenti non ricevono fondi.
Penso che il futuro possa essere negli spazi indipendenti. Anche se è difficile, perché per loro sopravvivere è complesso, forse sono gli unici luoghi dove ancora esiste una reale libertà.